Dramma giocoso in atto unico
di Gloria Deandrea

 

 

Sinossi
La vicenda si svolge all’interno di un teatro. Riguarda il mestiere di un attore in declino, a causa dell’età, e l’infelice rapporto col suo agente, il quale, gli procura una parte minore all’interno di una pièce. All’attore è stato commissionato il ruolo del personaggio-padre, Basilio, presente nell’opera La vida es sueño, di Pedro Calderón de la Barca, ma lui vorrebbe impersonare il personaggio-figlio, Sigismondo, esponendo al pubblico il suo emozionante soliloquio sulla libertà. Da qui vengono esposti, dall’attore e dal suo agente, diversi sentimenti, fatti di incomprensioni, distacco, dialoghi feroci, che sfociano in incapacità nel perseguire un pensiero comune, evidenziandone il contrasto tra i due, sul tema del libero arbitrio, fino ad arrivare all’imposizione dell’agente sull’attore. Contemporaneamente a questa vicenda, l’attore instaura un più intenso rapporto con un personaggio astratto: la sua ombra, la quale, fungerà da consigliera, amica, e alleata, anche nei momenti ‘bui’.
Inoltre, l’attore medesimo, restio a scendere a compromessi, e ad insaputa del suo agente, si prepara un monologo sul tema universale della libertà, che gli propone, senza, però, trovare nella figura che lo promuove, un attento ascoltatore. Provocato dalle continue tensioni, e ossessionato dalle visioni dell’elemento astratto, uccide il suo agente, nel tentativo di ritrovare la desiderata 'libertà individuale'. A questo punto, preso coscienza della sua azione, e in preda al caos, cerca di nascondere il cadavere, mentre la sua ombra, scherzosamente, glielo riporta all’attenzione visiva. In conclusione, lo stesso pubblico, gli domanderà il monologo sulla libertà, che lui concede come ultimo istante di 'arbitrio' vero, prima dell’arresto.

 


Personaggi
tre attori in scena Attore, sua Ombra, suo Agente
ruolo doppio

Attore protagonista
Sigismondo principe rinchiuso nella torre, in 'La vida es sueño' di Pedro Calderón de la Barca

sua Ombra figura astratta
suo Agente deuteragonista

 


Descrizione scena
scena unica
Lo spazio è determinato dal vuoto del palcoscenico.
L’unico ambiente che compone la scena, individuata dai distinti spostamenti delle figure agenti, è il palcoscenico stesso, rappresentato nella sua essenzialità, e accessibile al pubblico con immediatezza attraverso la raffigurazione ‘a vista’ degli elementi scenici in uso.
Per una buona comprensione del testo, valorizzato dagli attori, si rende perciò necessario utilizzare tali elementi, di supporto agli attori medesimi, e non di ostacolo. Questi materiali si distinguono in:

  • oggetti di scena mobili e mai fissi, in modo da essere gestiti direttamente dall’attore, che dovrà trattare tali oggetti come elementi di potenziamento alle proprie capacità gestuali, di supporto all’azione scenica
  • luce diffusa - per evidenziare gli spostamenti degli attori agenti
    luce contenuta - concentrata sul singolo attore, nei momenti di recitazione dei monologhi sulla Libertà, e del soliloquio sulla Libertà, tratto da La vida es sueño di Pedro Calderón de la Barca
    controluce - per l’esposizione al pubblico delle scene sui cinque sensi presenti nella pièce. Quest’ultimo uso della luce si presenta, inoltre, come metafora visiva di annullamento della figura dell’Attore, in favore della sua Ombra, che, nel caso specifico, offre un’ulteriore lettura, in rapporto alla duplicità delle azioni gestuali svolte dall’Ombra e dall’Attore stessi
  • è possibile inserire, inoltre, cartelli e/o proiezioni con scritte o parole efficaci, di sostegno al testo e alla scena, possibilmente gestiti dall’attore

La scena sopra indicata è pensata per potenziare il lavoro dell’attore, che non può essere compromesso da ambienti fastosi o barocchi, indicativi di altre forme teatrali. A tal proposito è importante porre in evidenza il fatto che la scena è, e dev’essere sempre di supporto all’attore, il quale saprà porre, nel modo più consono, l’attenzione sul testo teatrale, grazie all’uso appropriato della parola e del gesto.

 


Descrizione costumi
costumi contemporanei e storico
I costumi, fondamentalmente contemporanei, distinguibili tra reali e astratto, è necessario che rispondano alle caratteristiche di ‘adattabilità’ alla figura attoriale, perciò, devono presentarsi come supporto all’azione compiuta dall’attore medesimo, e non come ostacolo. Per quanto riguarda il personaggio storico del principe Sigismondo, (soliloquio tratto da La vida es sueño di Pedro Calderón de la Barca) invece, è possibile stimolare la fantasia dello spettatore attraverso la realizzazione di accessori, di forte valore simbolico, che caratterizzano visivamente e con immediatezza il personaggio stesso e il tempo storico di appartenenza, enfatizzandone la personalità. Tali descrizioni permettono una distinzione tra:

  • Costumi contemporanei reali, per i personaggi: Attore, Agente
    Neutri, possibilmente monocromatici. La caratteristica principale dei costumi è data dalla duttilità dei tessuti, che provoca una conseguente comodità nella vestizione dell’abito, entrambe doti necessarie per agevolare l’attore in ogni suo movimento. Tali qualità non possono dissociarsi dal trucco che l’attore stesso è tenuto ad eseguire, includendovi anche un’attenzione particolare alla capigliatura, rilevante per il completamento di ogni personalità presente in scena.
  • Costume contemporaneo astratto, per il personaggio: Ombra
    Neutro anch’esso, inevitabilmente nero. La caratteristica principale di questo costume è data dall’assenza della visibilità dell’attore, inteso come persona fisica, in quanto ‘costretto’ all’interno di un abito che investe il corpo nella sua totalità, riducendolo a figura astratta. Di conseguenza, dev’essere realizzato con materiali elastici, particolarmente duttili e adattabili all’attore medesimo, per favorire il performer nelle manifestazioni fisico-gestuali richieste, con attenzione specifica alla respirazione di quest’ultimo.
  • Costume storico (ovvero accessori), per il personaggio: Sigismondo
    In sostituzione al costume di scena per il personaggio storico, individuato nel principe Sigismondo, ciò che lo determina visivamente è il gesto compiuto dall’attore, il suo timbro vocale nell’esposizione del soliloquio, e l’accessorio; quest’ultimo si può distinguere tra un capo d’abbigliamento, di valore simbolico, inerente alla parola ‘libertà’ es. cappello (‘pileus’, che, insieme ad uno scettro, nella monetazione romana, caratterizzava la figura dello schiavo liberato), oppure un oggetto, simbolo di ‘libero arbitrio’: es. uno scettro, in cima del quale si trova la lettera greca Y (fu usata come marca tipografica di stampatori legati al pensiero di Calvino, come Nicolas Barbier e Jean Crespin. L’immagine delle tipografie calviniste raffigura un vecchio barbuto che con un’asta indica la lettera Y, avvolta da un cartiglio con la scritta ‘Intrate per arctam viam’ – ‘Entrate per la stretta via’. Oppure, dal pensiero di Pitagora, in cui afferma che la vita umana ha due vie, come la sopradetta lettera è divisa in due rami, del quale il destro è come la via della virtù, che da principio è angusta ed erta, ma nella sommità è spaziosa ed agiata, e il ramo sinistro è come la strada del vizio, la quale è larga e comoda, ma finisce in angustia e precipizi).

 


Scena I
Cinque sensi vista dell'ombra

Sipario chiuso.
L’Ombra dell’attore, già presente in scena, non visibile al pubblico. All’apertura del sipario, entra l’Attore.
Pantomima.

Rumore (in crescendo; assordante per qualche secondo, s’interrompe di colpo alla caduta dell’attore)
Attore (buio sul palco. Entra l’attore, di lato, con dei fogli tra le mani, illuminato da un segui persona – followspot. Arrivato al centro, scivola, e cade a terra tramortito, facendo volare i fogli in aria; questi, si distribuiscono in ordine sparso, sul palco)
Ombra (già in scena, a terra. Qualche istante dopo la caduta, s’illumina il palco. Lei si solleva, accarezzando l’attore)
Attore (apre gli occhi. La vede, si allontana spaventato)
Ombra (compie gli stessi gesti dell’attore, specularmente)
Attore (espressioni d’incredulità al pubblico)
Ombra (idem)
Attore (scosso, cerca di raccogliere i fogli caduti)
Ombra (idem, senza fogli)
Rumore (porta che sbatte)
Attore (si ferma, avvicinandosi all’ombra, senza toccarla)
Ombra (si ferma, avvicinandosi all’attore, senza toccarlo)

 


Scena 1
Sentimento istinto - dialogo attore/agente

Attore e sua Ombra, già presenti in scena, in teatro. Entra l’Agente dell’Attore.
Dialogo tra l’Attore e il suo Agente, sull’Ombra e sul testo da rappresentare.
NB La gestualità dell’Ombra, e il suo comportamento rispetto all’Attore e all’Agente, in questa scena, sono da considerarsi a libera interpretazione attoriale.

Agente (entra; gli va incontro, a braccia aperte) Eccolo qua, il mio attore preferito. L’unico, il solo, l’originale.
Attore Sssss! (gli indica di fare silenzio. Si alza, lasciando i fogli a terra. Si guarda intorno, allontanandolo; a bassa voce) La vedo.
Agente Cosa?
Attore (a bassa voce) La presenza. (gli indica, nuovamente, di fare silenzio)
Agente (anch’esso a bassa voce, imitandolo, con ironia) Di chi?
Attore Qui. Al mio fianco.
Agente (torna ad aprire le braccia) Di chi?
Attore Qui. Con me. (gli indica nuovamente di fare silenzio. Lo allontana ancora) Di chi, non so.
Agente (espressione di perplessità, al pubblico)
Attore (gli fa cenno di avvicinarsi) E quando non la vedo, la sento.
Agente La senti.
Attore La sento vicina.
Agente (allontanandosi) Ti ricordi quando, alcuni mesi fa, sei caduto…
Attore …sì…
Agente …mentre rileggevi la parte…
Attore …sì…
Agente …proprio su questo palco…
Attore …sì…
Agente …qualche istante prima di andare in scena…
Attore …sì…
Agente …anzi, eri già in scena…
Attore …e allora?!
Agente Hai picchiato la testa.
Attore (sorpreso, in crescendo) Ah! Vuoi dire…
Agente …no, non fraintendermi…
Attore …lo so cosa pensi…
Agente …no, non lo sai…
Attore …sì, che lo so…
Agente …non sai cosa voglio dire…
Attore …e cosa vuoi dire…
Agente …soltanto che…
Insieme …anche tu…
Attore …come gli altri…
Agente ...ma gli altri chi?!
Attore (urlando) Tutti. (riprende, acceso) Tu pensi che sia pazzo…
Agente …non lo penso affatto.
Attore Non ricominciare.
Agente Non ho detto niente.
Attore Hai detto: ‘Non lo penso affatto’.
Agente Sì, ma ho solo risposto alla tua domanda.
Attore Non era una domanda.
Agente Va bene.
Attore Era un’affermazione.
Agente Ti dai del pazzo da solo?
Attore Sì. Decido io se essere pazzo oppure no. Chiaro?!
Agente Chiarissimo. Non c’è ombra di dubbio.
Attore (s’illumina alla parola “ombra”; quindi, torna ad abbracciarlo) Proprio su questo argomento volevo interpellarti, amico mio.
Agente Sul dubbio? E chi non ne ha. È normale averne, in una vita.
Attore Sull’ombra.
Agente Eh, carissimo… l’ombra, l’ombra, l’ombra… è ottima da bere!
Insieme Ah, ah, ah!
Attore Sto parlando di un altro tipo di ombra. Ne hai mai avuta una?
Agente Ehooo! Anche di più!
Attore E come si sono presentate? Hanno avuto comportamenti diversi, o sono sempre state così?
Agente Così…
Attore (al pubblico) …lo sapevo! Tutte uguali.
Agente No, intendevo, così… come?
Attore Così, come la mia. Che si vede e non si vede. Nell’istante in cui pensi di averla finalmente eliminata, sai, al crepuscolo, quando riesci ad ottenere un momento d’intimità tutto tuo, dopo la dura e nauseabonda giornata di lavoro… (gesto di un botto) pam, qualcuno ti accende la luce. E ricompare. Buia. Sempre più buia, cupa, tetra. E si diverte, eh, sia chiaro. Gioca, ti prende in giro, finge di spaventarsi… ah, ma io…
Agente (gli allunga un copione)
Attore (lo respinge) …io, ce l’ho una soluzione. Devo cominciare ad abbassare la luce, piano piano, fingere, addormentarmi, pensare che tutto sommato la vita è…
Agente …sogno. (gli allunga il copione)
Attore Già! (lo respinge) Proprio così. Se sogno non la vedo. Scompare. (cambio di tono) Peccato, però. Mi ci ero quasi affezionato a quell’esserino dispettoso… sempre presente… insopportabile, quasi piacevole…
Agente (gli allunga il copione, mettendoglielo proprio davanti alla faccia)
Attore Cos’è?
Agente Un copione.
Attore (lo guarda, senza prenderlo) Lo vedo che è un copione. Di cosa?
Agente La vita è sogno. Pedro Calderón della Barca.
Attore Los grandes autores del ‘Siclo de Oro’ de Spagna.
Agente Olè. (con un passo di tango, cialtronesco, glielo ripropone)
Attore (lo prende) E chi dovrei fare?
Agente Il personaggio più bello. L’unico, il solo, l’originale.
Attore (gioioso) Il principe Sigismondo?!
Agente Basilio.
Attore (sconsolato; glielo restituisce) Il vecchio re.
Agente (lo riprende) Un personaggio adatto a te.
Attore Non sono vecchio.
Agente Neppure re, se è per questo. Però un po’ vecchio, e un po’ malato…
Attore …non sono né vecchio, né malato.
Agente (gesto di sufficienza al pubblico) No, per volontà di Dio.
Attore Per volontà mia!
Agente (riferendosi a ‘malato’) Non del tutto. Vecchio, magari, non è un termine cortese… comunque non giovane.
Attore Neppure vecchio.
Agente Attempato, va bene? Un attempato, con esperienza.
Attore Ci mancherebbe! Già è orribile ‘attempato’, figurati se non avessi almeno un po’ d’esperienza. Anzi, molto più di un po’. Parecchia, direi.
Agente Tieni. (gli allunga ancora il copione)
Attore (lo prende, scocciato) Cos’è?
Agente (espressione rassegnata) La vita è sogno. Sempre quello. È la pièce giusta per te.
Attore Piuttosto per te.
Agente Per me, per te, per i teatri, per la gente, per tutti. È una storia universale. Va bene a tutti.
Attore Ma non va bene a me.
Agente Ma sì che ti va bene. Ha sentimenti universali!
Attore Sicuro? Tu dici?
Agente Certo che dico. Voglio dire, e dico!
Attore Cos’ha di universale Basilio?
Agente Di universale?
Attore Universale. L’hai detto tu, dici, dici, dici… (imitandolo) ‘È una storia universale’. ‘Ha sentimenti universali’. Benissimo. Allora dimmi cos’ha di universale Basilio.
Agente Bèh, intanto parla di sentimenti umani.
Attore (ironico) Non animali. No.
Agente (cenno negativo col capo)
Attore Poi?
Agente Poi… se non sono universali quelli!
Attore E di che sentimenti parla, nello specifico.
Agente Nello specifico… d’amore!
Attore (sbalordito) D’amore, Basilio?! (lo osserva con severità)
Agente Nooo?! Ricordo male? Eppure mi sembrava… d’amicizia! L’amicizia è importante, è come l’amore, sono dei sentimenti nobili… nelle pièce, intendo… in molte pièce, quasi tutte, direi… c’è la vicenda amorosa… (rassegnato) Non lo so.
Attore Non lo sai, perché non l’hai letto.
Agente Eh, non l’ho letto, adesso…
Attore …adesso, no. Prima, neanche.
Agente Solo perché ho avuto delle titubanze. Come fai a dire che non leggo?!
Attore Non leggi mai! Basilio è un vecchio re, che fa rinchiudere in una torre il proprio figlio, Sigismondo, per vent’anni.
Agente Vedi?! Un re giusto.
Attore Cos’ha di ‘giusto’ rendere il proprio figlio uno schiavo?
Agente Se l’ha reso schiavo, sotto sotto, qualcosa deve aver pur fatto?! No?
Attore No.
Agente E allora perché?
Attore Perché è un re dubbioso, esperto in astrologia. E gli oracoli, alla nascita del figlio predissero un regno in recessione, governato da un tiranno.
Agente Ecco, lo vedi?! … Che qualcosa aveva fatto?
Attore Ma se era appena nato!
Agente Eh, sì, ma poi… sarebbe cresciuto. E lo avrebbe fatto.
Attore Quindi, per annullare possibili governi tirannici, fai il tiranno per primo, proprio con tuo figlio?!
Agente Non ti piace Basilio?
Attore Cosa c’entra il piacere?!
Agente Capita! Un attore si (enfasi su ‘affeziona’) affeziona a un personaggio piuttosto che a un altro. È normale. Succede.
Attore Si affeziona? Un personaggio non è mica un cane! Semmai, se proprio ci devono essere in teatro… i cani, sta pur certo, sono solo gli attori. Ma questo è un altro discorso… tra l’altro, molto, molto lungo.
Agente Va bèh. Diciamo che non ti appassiona perché sottomette il figlio.
Attore Nessuno è attratto dalla schiavitù. L’hanno abolita.
Agente Eh, più o meno, più o meno… E poi, questo re, che fa? Lo scarcera, questo figlio?! Che fa? Che fa?
Attore Dopo averlo fatto crescere in schiavitù, legato a una catena, imprigionato in una torre, in profonda solitudine, seguito da un unico precettore, che è anche il suo secondino, ebbene, sì, lo scarcera.
Agente Oh, vedi, che anche Basilio ha un cuore?!
Attore Lo fa addormentare e condurre a palazzo, per stabilire se in lui, dopo vent’anni di catene, ha trionfato il tiranno o il principe giusto, pronto a governare.
Agente Bellissima vicenda. E come si suol dire: tutto è bene quel che finisce bene!
Attore Lo considera tiranno, quindi lo fa riaddormentare e ricondurre in prigione, in catene.
Agente Ah, non finisce bene. Una tragedia, quindi. Suggestiva!
Attore Il giovane principe si risveglia nuovamente in carcere, convinto di aver sognato…
Agente …da qui il titolo poetico. Geniale, meraviglioso!
Attore Poi, il popolo, venuto a conoscenza del principe rinchiuso, lo scarcera e, vivendo nel limbo tra verità e finzione, realtà e fantasia, tangibilità e sogno, Sigismondo combatte, col suo esercito popolare, contro l’esercito del padre-re, per stabilire chi tra i due giungerà vittorioso al compimento della battaglia, quindi, all’eredità del trono.
Agente Una storia eroica! Suggestiva, geniale, meravigliosa, coinvolgente, seducente! Vedi che avevo ragione?! L’amore c’entra. La passione, i sentimenti gloriosi, la passione, l’universalità, e ancora, che so, i sentimenti, quelli che piacciono tanto al pubblico, perché ci si può riconoscere.
Attore Certo, come no! Tutti hanno piacere di riconoscersi in un vecchio re, (si tocca la testa, indicandola) malato, pazzo, che tenta di distruggere la vita al proprio, unico, figlio.
Agente Sei sprezzante, sai?
Attore Lo so.
Agente No, non lo sai… col tempo, sei peggiorato, sai?
Attore Lo so. E tu, col tempo, non sei migliorato affatto, sai?
Agente Lo so. Ma quello che tu non sai, e che dovresti sapere, è che non ti puoi più permettere di scegliere molti copioni, e il perché, lo sai?
Attore Lo so.
Agente No, non lo sai bene. Perché sei vecchio e malato, (imita il gesto dell’attore) come Basilio, che è perfetto per te.
Attore Ma se non l’hai neanche letto come fai a dire che è perfetto per me?!
Agente Perché non hai altre offerte! Almeno per il momento.
Attore Beh, questo è un signor motivo. E comunque non sono malato.
Agente Ah, no?! (simulando l’attore) ‘La vedo, la vedo, la sento, la presenza’. Guarda che anche le malattie mentali, sono malattie, sai?
Attore Lo so. Dovresti fare l’attore, sai?!
Agente Lo so. Con tutte le menzogne che racconto sulla tua salute, dovrei eccome.
Attore (senza guardarlo) Certo, ti dovresti impegnare: parlare in italiano senza accento, compiere il gesto e la parola in parallelo; alcune volte, prima il gesto, poi la parola, altre, prima la parola, poi il gesto, altre ancora, insieme, in equilibrio perfetto; lavorare col corpo, con la voce, fare esercizi continui e costanti, magari capire anche le battute che stai dicendo (lo guarda) beh, per la comprensione… magari più avanti…
Agente …magari non mi interessa fare l’attore.
Attore Magari non t’interessa capire.
Agente Magari entrambe, in parallelo.
Attore (tra sé) Era un’idea così, come un’altra.
Agente Un’idea…
Attore (s’illumina) …brillante! A proposito di idee…
Agente …così, come un’altra…
Attore …mettendo in ordine i miei appunti… (si abbassa, cercando di raccogliere i fogli a terra)
Agente …ordine…
Attore …sì, quasi… ho ritrovato un vecchio testo, davvero appassionante, studiato, costruito con regole, metodo, pensiero, davvero, davvero interessante, lo vuoi leggere? (si alza, si avvicina, offrendoglielo)
Agente (impassibile) No.
Attore (al pubblico) Figurarsi! (all’agente) Dagli una scorsa.
Agente No.
Attore Un’occhiata generale.
Agente No.
Attore Allora la sinossi. Leggi solo la sinossi.
Agente No.
Attore Almeno sfoglialo!
Agente No, no, e no. Mille volte no! (prende i fogli e li lancia per il palco)
Attore Hoeee! Vedi di darti una calmata. Prenditi una vacanza, un momento di pausa dal lavoro. Sei isterico.
Agente N-o-n s-o-n-o i-s-t-e-r-i-c-o!
Attore N-o-n c’-è b-i-s-o-g-n-o d-i u-r-l-a-r-e! Basta dirlo, con calma, non è un problema, se è no, è no.
Agente Nooo! Invece è un problema! Cioè, c’è un problema. Anzi…
Insieme …tu, (indicandosi a vicenda) sei il problema.
Attore Non posso decidere, non posso scegliere, non posso essere quello che sono…
Agente …no, non puoi.
Attore E io sarei il problema?
Agente Non puoi in questo momento.
Attore Se non adesso, quando?
Agente (cenno di uscita di scena) Sei irrecuperabile.
Attore (lo blocca) Allora quando?
Agente Mai. Non puoi mai. Ma non capisci?! È questo il problema. Hai un’idea sul testo da rappresentare, un’idea sul personaggio da interpretare, un’idea sull’attore che ti deve sostenere, ma nessuna di queste idee è quella richiesta. (gli indica il copione) La vita è sogno. È quella richiesta. Guardala e fammi sapere. (uscendo) È una bella pièce, vedrai…
Attore (facendogli eco) …e tu che ne sai…
Agente (rispondendo all’eco) …non lo saprò mai. (fuori scena) E chi se ne importa, ah, ah, ah!
Attore (tra sé, guardando il copione) A me, importa.

 

To be continued…

 


APPENDICE
Note sui personaggi
I personaggi presentati nella pièce si dividono in due categorie: i personaggi reali, un attore in declino e il suo agente, personalità intorno a cui viene costruita la vicenda; quello storico, il principe Sigismondo, rinchiuso nella torre come schiavo, ne: ‘La vida es sueño’, di Pedro Calderón de la Barca; ed un personaggio astratto: l’ombra dell’attore.

  • Personaggi reali: attore
    L’attore è un personaggio inventato, immaginario, che vive nella contemporaneità e conduce un’esistenza votata al teatro. La costruzione drammaturgica si presenta, perciò, priva di vincoli dettati da appartenenze storiche, ma, al contempo, viene formulata con una struttura verbale di complessità linguistica, in cui si rende necessaria un’esposizione equilibrata, seppur vivace e ironica. Ovviamente, tale esposizione, è essenziale per favorire la comprensione del testo da parte dello spettatore, e stimolare in lui possibili considerazioni sul tema proposto. Oltre alle battute riflessive sono presenti anche quelle ripetitive, che incidono sul personaggio, amplificandone le caratteristiche. Si è intervenuto, inoltre, nella composizione drammaturgica, con largo uso di bisticci, asticci, giochi di parole e sciarade. Tutti elementi di supporto al dialogo ritmato tra i due interpreti. Per concludere, quasi la totalità delle battute dell’attore sono rivolte all’agente, fatta eccezione per quelle giocose sia al pubblico che alla sua ombra, e quelle solitarie, con tonalità inferiore, legate all’esposizione dei monologhi ‘sulla libertà’.
    NB Per agevolare una maggiore conoscenza della vicenda, si rende necessario, da parte dell’attore, differenziare la recitazione tra il soliloquio ‘sul libero arbitrio’, di Sigismondo, i monologhi, e i dialoghi della pièce in atto.
  • Personaggi reali: agente
    Anche l’agente è un personaggio immaginario, che vive nella contemporaneità, esattamente come l’attore, ma, a differenza di questo, la sua esistenza è condotta, per quasi tutta la durata della pièce, con un distacco maggiore dall’apparato teatrale, sia a causa del ruolo di promotore che riveste, sia per la superficialità che lo contraddistingue. La costruzione drammaturgica del deuteragonista, inevitabilmente di supporto al protagonista, è perciò legata alle battute di quest’ultimo, e anch’essa si presenta non priva di soluzioni lessicali, proposte, però, con una complessità linguistica meno accentuata.
  • Personaggio astratto: ombra dell’attore
    Il personaggio dell’ombra, elemento astratto, offre allo spettatore una lettura emblematica, in quanto figura non esistente nella realtà, nonostante il vasto utilizzo del personaggio nelle arti letterarie, e spettacolari, come teatro e cinema. Tale personaggio, proprio perché astratto, offre all’attore libertà creativa ed espressiva, sia fisica, per mezzo di studi sulla pantomima, che verbale, attraverso l’esposizione di suoni a modulazioni differenti.
  • Personaggio storico: principe Sigismondo
    Il personaggio storico riveste una funzione di sostegno alla pièce. Tale incarico è necessario, sia a livello strutturale, per la costruzione metrica dei monologhi ‘sulla libertà’, identica a quella del soliloquio presente in ‘La vida es sueño’; per il parallelo col tema del ‘libero arbitrio’, trattato dagli autori del ‘Siglo de oro’, e ripreso nella pièce medesima, attraverso i dialoghi tra i due attori; che per la formulazione di un pensiero sulla ‘libertà individuale’, sollecitato dalle illuminanti delucidazioni di un drammaturgo dall’indiscusso valore artistico come Calderón, con l’intenzione di offrire allo spettatore una doppia visione: la tragedia in atto, e la recitazione attoriale, quest’ultima differente tra soliloquio, monologhi e dialoghi. Il personaggio del principe Sigismondo offre, quindi, un suggerimento prezioso alla pièce nel suo complesso, dettato dalle seguenti caratteristiche:
    – nel testo originale è incatenato, qui, legato, statico, vincolato nei movimenti
    – esposizione del soliloquio, tra sé, o rivolto al cielo, ma non al pubblico
    – esposizione del soliloquio in lingua originale (spagnolo), per mantenere la sonorità data dal sistema metrico della dècima

L’evoluzione drammaturgica si compie in uno solo dei personaggi reali: l’attore. Nel momento in cui avviene l’uccisione dell’agente per mano dell’attore stesso, si presenta un’inevitabile, nonché irreversibile mutazione, in cui l’azione dell’agente si conclude a causa del decesso, mentre quella dell’attore si trasforma, rendendo quest’ultimo un uomo ‘libero’ sì, dalle imposizioni dell’altro, ma a quale prezzo? Da qui emergono sentimenti universali che completano la personalità dell’attore, agevolandolo nella scelta tra una rosa di possibilità, visibili attraverso la rappresentazione fisica, data dai gesti diretti e dagli spostamenti in scena, e quella verbale, grazie a colori e tonalità differenti.
Per quanto riguarda sia il personaggio storico che quello astratto, invece, non avviene alcuna evoluzione drammaturgica. Infatti, è necessario che entrambi mantengano la funzione per cui sono stati prelevati, di supporto e sostegno, comunque prezioso, al testo.

 


Note sulle scene
La pièce è strutturata in atto unico, all’interno del quale si distinguono 3 tipologie di scene:
– 5 sezioni in numeri romani, indicanti ognuna un ‘senso’: vista, udito, olfatto, tatto, gusto
– 5 sezioni in numeri arabi, raffiguranti un ‘sentimento’, tra i modelli universali: istinto, ira, desiderio, dolore, amore
– 5 mL – monologhi ‘sulla libertà’, (4 monologhi, 1 soliloquio), che propongono la rappresentazione di un unico sentimento: la risonanza di un fatto
per un totale di 15 scene, in cui presentano maggior consistenza e articolazione non solo verbali, ma d’azione, quelle di dialogo tra l’attore e il suo agente, riguardanti l’esposizione del ‘sentimento’. Mentre le scene dei ‘sensi’, in cui l’azione è formulata soprattutto dall’ombra, libera di esprimersi attraverso la pantomima, promuovono una timida intimità, fungendo da supporto al più profondo e personale mondo dei monologhi ‘sulla libertà’, che rafforzano il tema principale trattato nella pièce, agevolando un’ulteriore interpretazione dell’attore e permettendo la riflessione dello spettatore.
Sono di seguito riportate delucidazioni sulle scene differenti:

  • Scene I, II, III, IV, V, sul ‘senso’ – vista, udito, olfatto, tatto, gusto
    Queste scene, la maggior parte, più fisiche che verbali, impostate sull’azione gestuale dell’ombra, vogliono mostrare, in pochi minuti, alcuni aspetti dell’attività attoriale, non sempre visibili e/o praticati dall’attore contemporaneo: trucco, pantomima, e movimento acrobatico. Tali aspetti si presentano in contrapposizione alla figura umana, annullandola, per favorire un personaggio astratto, senza volto né copro, privo di consistenza visiva, ma dalla presenza scenica di notevole impatto teatrale. Le scene sul ‘senso’, ovvero, sui cinque sensi, insolite per il Teatro di Parola, rivestono l’importante funzione di completamento dello scritto sul sentimento universale della ‘libertà’, raffigurando una sintesi descrittiva dell’argomento sviluppato.
  • Scene 1, 2, 3, 4, 5, sul ‘sentimento’ – istinto, ira, desiderio, dolore, amore
    In queste scene, strutturate come dialoghi tra i due personaggi, attore e agente, sono presenti sia le componenti dell’azione scenica indiretta: narrazione, l’attore, si rivolge al pubblico, esponendo le battute di relazione/scambio con quest’ultimo; soliloquio, l’attore espone le battute tra sé, con maggiore intimità e flemma verbale; che di azione scenica diretta: dialogo, il protagonista si rivolge al deuteragonista, con battute di scambio rapido, sostenuto, ritmato, botta/risposta. Tali elementi, specifici dell’attività teatrale, fanno sì che l’attore agente e lo spettatore reagente, le due figure prime del Teatro di Parola, abbiano la possibilità di giocare più intensamente, senza nulla togliere alla vicenda narrata nella pièce, in cui sono posti, in relazione e antitesi, alcuni tra i sentimenti universali insiti nell’animo umano, di grande effetto per l’arte teatrale e per tutto ciò che implica forti impulsi.
  • Scene mL – 4 monologhi sulla ‘libertà individuale’, 1 soliloquio sul ‘libero arbitrio’
    Per le scene ‘sulla libertà’, distinte tra monologhi (esposti al pubblico o all’attore) e un soliloquio (tra sé), prendendo come riferimento quest’ultimo, si è applicata la struttura della décima (strofa composta da dieci ottonari, con rima in ABBAACCDDC, già impiegata dagli autori del ‘Siglo de Oro’ spagnolo, e tuttora in uso dai contemporanei ispanici d’America). Tale struttura, offre allo spettatore una specifica condizione drammaturgica, presentando l’alto grado di sonorità, gestita dall’attore, che tratteggia un aggiuntivo elemento di lettura.
  • Scena mL, parte III – L’attore uccide l’agente
    In questa scena, oltre all’esposizione del monologo, subentra un fattore rilevante: l’uccisione, che permette l’evoluzione drammaturgica del protagonista, per mezzo di sentimenti universali amplificati, impedendo al suo opposto, il deuteragonista, una benché minima crescita. Tale uccisione, metafora visiva necessaria, che individua la ‘liberazione’ dell’attore dal suo agente ancorante, raffigura una sintesi descrittiva dell’argomento sviluppato nella pièce, relativo alla ’libertà individuale’. E, pure in questo caso, la scena, anch’essa studiata con la struttura della rima, presenta una sonorità abbinabile a una musica di sottofondo.

Le scene sul ‘senso’ e quelle sul ‘sentimento’, dipendono l’una dall’altra, e devono essere interpretate con un ordine progressivo. Mentre i monologhi sulla ‘libertà’, composti da sette versi ciascuno, si possono presentare come così prodotti, autonomi tra loro, oppure scambiati, o addirittura integrati alle altre scene, a libera interpretazione, con lo scopo di agevolare una distinta lettura dell’opera medesima.

 


Sulla drammaturgia
La drammaturgia, ovvero la scrittura teatrale, è un tipo di scrittura “doppia”. Dev’essere pensata per la rappresentazione e non soltanto per la lettura come un qualsiasi altro testo; ossia, è necessario individuare i termini che meglio possono modellarsi all’azione fisica dell’attore, e che, contemporaneamente, permettono la comprensione della vicenda da parte dello spettatore. Oltre a questi punti, bisogna tener presente anche i gesti collettivi dei performer agenti in scena, sempre in rapporto alla parola detta, alle entrate/uscite e agli spostamenti continui. In sintesi, la drammaturgia, favorisce il racconto di una storia sia a livello visivo che orale, e qui trova la sua dimensione d’eccellenza, per contro, presenta svariate difficoltà d’impostazione, ma, soprattutto, va provata in scena.

Sulla drammaturgia storica
I temi rilevanti e in parte già citati, investiti dalla drammaturgia storica, sono: il concetto di doppio, il gesto dell’attore in rapporto alla parola, l’azione fisico/verbale, il tempo storico passato in relazione a quello presente. Questi stessi temi, specifici del Teatro di Parola, devono inevitabilmente convergere verso la rappresentazione di una vicenda, che sia essa a sfondo sociale, antropologico, politico, o filosofico.
Per raggiungere questo obiettivo, è necessario partire da una ricerca storica consistente, tale da porre le basi strutturali all’opera. La ricerca storica medesima, punto focale del testo, contribuisce alla solidità dell’impianto impostato dall’autore, sostiene l’elaborazione filologica compiuta dall’attore, e, per ultimo, ma non meno importante, agevola la lettura lineare dello spettatore, sia a livello di pensiero che di sentimenti. Inoltre, permette la caratterizzazione dei singoli personaggi, visti da diverse angolazioni, e favorisce il dibattito anche sulle più complesse vicende passate, realmente accadute, poste sempre in relazione alla contemporaneità.

Sulla drammaturgia contemporanea
La drammaturgia contemporanea è, o perlomeno dovrebbe essere, il fiore all’occhiello delle produzioni teatrali, soprattutto se realizzata ex-novo, sia a livello strutturale/compositivo che narrativo, e se non si presenta come un adattamento da testi già esistenti (a cui, erroneamente, viene dato il nome di drammaturgia). È necessario attribuire alla drammaturgia contemporanea quel valore aggiunto che non può essere sostenuto da altre forme della rappresentazione teatrale. Di conseguenza, il lavoro del drammaturgo, sicuramente elitario, verte sulle considerazioni sopra citate, con la consapevolezza di chi compie un percorso artistico rivolto all’ottenimento di risultati permanenti, in modo da arricchire non solo la realtà teatrale, ma culturalmente la società e il costume del tempo storico di appartenenza. Quest’ultima operazione è imprescindibile dall’opera realizzata, e contribuisce in modo rilevante alla crescita culturale di un Paese. È un dovere civico, un dovere etico che ogni autore non può esimersi dall’ottenere, e va molto oltre la rappresentazione di un semplice e fortunato spettacolo.

 


Sulla décima
La décima o quintilla doblas, o espinella, in onore del poeta, romanziere e musicista, Vicente Espinel che, a fine XVI secolo, ne concepì la struttura, è una strofa composta da dieci ottonari, con rima in ABBAACCDDC. Può avere un punto fermo o i due punti dopo il quarto verso, ma non oltre il quinto. Può, inoltre, essere intesa come una strofa formata da due redondillas (periodi di quattro versi ciascuna), con rima in ABBA e CDDC, unite da un distico centrale cerniera AC.
Durante i secoli XVII e XVIII si usò con frequenza per la realizzazione dei poemi. Inoltre, fu particolarmente adatta per il teatro; a tal riguardo, il drammaturgo Félix Lope de Vega, nel suo ‘Arte nuevo de hacer comedias’ (1609), scrisse che ‘le décime sono buone per fare denuncia’. Tale struttura, infatti, si presenta con ritmo sostenuto, particolarmente incalzante, più musicale che poetico, grazie alla divisione doppia in cinque versi, e alla specularità delle rime introdotte nella strofa. Questo metro, è stato utilizzato dai poeti della Generazione del 27, quali Jorge Guillén, Gerardo Diego, Federico Garcìa Lorca, e molti altri autori e drammaturghi. È tuttora diffuso in America Latina tra i payadores, poeti popolari che improvvisano recitando in rima, accompagnati da una chitarra. Inoltre, la cantautrice cilena Violeta Parra, compose in dècima la sua autobiografia.
Nella metrica italiana, la décima è una strofa di dieci endecasillabi in cui, ai primi sei versi a rima alternata, segue un tetrastico finale di tre versi baciati su altra rima, e l’ultimo che rima con il verso pari della sestina alternata, secondo lo schema ABABABCCCB.
La décima è stata utilizzata raramente nella metrica italiana, perché impiegata soprattutto come stanza (porzione di un poema che, nella poesia moderna, equivale ad una strofa) della lauda (dal latino laus=lode; più precisamente lauda spirituale), la forma di maggior importanza di canzone sacra, in volgare, presente in Italia nel tardo medioevo e nel rinascimento, in seguito abbandonata, anche se tornerà popolare nel XIX secolo.

 


Su Pedro Calderón de la Barca
L’immagine estrema di Calderón è quella del drammaturgo al lavoro.
Dal 1630 al 1640 Calderón raggiunge la piena maturità espressiva e consolida contemporaneamente il prestigio della propria figura sociale. Pur continuando ad allestire spettacoli per i corrales (luogo per la rappresentazione di commedie, poi ‘Teatro del Príncipe’, per ultimo ‘Teatro Español’) accanto a commedie palaciegas (di ‘Palazzo’), è in questo periodo che si conquista una solida posizione ufficiale come drammaturgo di Corte, ottenendo, nel 1636, l’abito di cavaliere di Santiago, a prova del favore con cui lo stesso Filippo IV guarda ora al suo teatro e, in genere, all’attività drammaturgica. In questi anni, autos sacramentales (parti del dramma liturgico, con struttura allegorica), come La cena del Rey Baltasar o El gran teatro del mundo, drammi come La devoción de la cruz, La vida es sueño, El magico prodigioso e la prima parte di La hija del aire, apparsi tutti fra il 1634 e il 1637, dimostrano la rinnovata forza comunicativa e la complessità della proposta calderoniana all’interno del teatro riformato, nella fase culminante dell’esperienza barocca. L’affinarsi di una tematica religiosa come quella degli autos sacramentales, l’attenzione rivolta con sempre maggiore impegno alle trame concettuali e ai problemi etico/pratici dei drammi sul libero arbitrio e sul potere, e, accanto ad essi, l’abilità compositiva delle commedie d’intreccio, mettono l’opera di Calderón al centro dell’interesse letterario spagnolo. Siamo a una svolta di mentalità, pur con eccezioni vistose, nel rapporto fra letteratura e potere. Rispetto alle censure e ai disagi patiti all’epoca di Filippo II e di Filippo III, una certa aura di ufficialità e una maggiore tolleranza circondano ora l’attività dei teatranti, grazie, anche, all’atteggiamento del nuovo monarca. La decadenza politica ed economica della Spagna è al suo culmine, ma è anche il momento della massima convergenza fra istituzionalità sociale e produzione artistica, e il primato intellettuale di Calderón coincide col rafforzamento dell’apparato drammaturgico sia nella coscienza pubblica che nella concreta sperimentazione, con l’apporto decisivo delle proprie opere e, soprattutto, col segno di una nuova professionalità: il declino dello spettacolo all’aperto, a sfondo implicitamente ‘popolare’ dei corrales, a vantaggio dei teatri di Corte o di Palazzo; l’incremento dei macchinari di scena e, con essi, delle potenzialità dinamiche dei testi e della loro regia; l’avvento della musica come fattore integrativo dello spettacolo e dello stesso linguaggio drammatico, sono alcuni degli aspetti emergenti di questo rinnovato impulso della vita teatrale.
È possibile allestire una classificazione dell’intero corpus calderoniano per grandi temi: commedie de enredo (d’intreccio) o di ‘cappa e spada’, drammi d’argomento religioso, drammi ‘filosofici’, commedie mitologiche, autos sacramentales, generi minori. Ma si tratta, come è facile constatare, di partizioni legate empiricamente a un fattore tematico, ‘la materia’, e la sua presunta oggettività. Nodo essenziale dell’interpretazione di Calderón sembra essere, nell’attuale fase degli studi sull’autore, quello dell’approfondimento linguistico. Si tratta di una ricerca non facile, che impone allo sguardo del critico una laboriosa ambiguità; giacché il suo quadro di riferimento culturale presenta sia un severo coacervo di prescrizioni e rigidi istituti, dati dalla Controriforma cattolica, che un’indagine sul fitto e variatissimo apparato simbolico, regolato da una frenesia fantastica. Da un lato, una ferma impalcatura ideologica fa di questo teatro un sistema chiuso, dall’altro, la spiccata tendenza a una trascrizione metaforica del mondo ne esalta, sintomaticamente, la vocazione poetica. Di conseguenza, il teatro stesso, viene percorso in lungo e in largo da trattative incessanti fra le leggi del movimento scenico, del ritmo, e della concentrazione lirica, garantendogli una salda armatura di stile, ma conferendogli anche una misteriosa apertura verso la trasfigurazione, una strana e disinvolta doppiezza.
Apertamente seguace, fin dalle prime prove, di Lope de Vega e della sua riforma teatrale, Calderón non s’impegna in un rilancio della drammaturgia spagnola fondato sul rinnovamento dei temi o su modifiche, seppur marginali, della struttura che li accoglie. Più che come inventore di nuovi contenuti o precetti, egli si afferma come elegante utilizzatore di motivi già collaudati, che ripropone in vista di un’economia teatrale più regolata e insieme più flessibile, e per un pubblico esperto. La sua vera impronta originale sta nell’elaborazione, non nella rivolta. Basta ripercorrere i materiali allestiti da Calderón fra il 1620 e il 1640, per cogliere, almeno nelle grandi linee, il senso di questo spirito conservativo; per constatare come egli rielabori, rinsaldi e riproponga con più forte accento didascalico, fin dai suoi esordi, gli stessi valori che Lope ha variamente illustrato sulle scene per alcuni decenni. Universalistica e piramidale si ripresenta in lui la concezione della società e dei suoi ordinamenti. Il tema della honra (onore), per Calderón è, sul piano ideologico, una convenzione ferrea e ineludibile. È un severo pregiudizio del costume, ma è anche una figura della teatralità suscettibile di mutamenti in senso strettamente funzionale: adeguandosi ai generi in cui viene a collocarsi, può essere, di volta in volta, un veicolo di scioglimento per grovigli amorosi al limite del grottesco, un aberrante dèmone della morale collettiva, infine un’occasione per nobili rivendicazioni di equità sociale. Il vigore dell’impegno sociale, così come l’ambiguità delle proposte combinatorie nelle commedie ‘di Palazzo’, sono sempre in sintonia con la cura formale dell’esecuzione; l’inquietudine morale o esistenziale va al passo con la perizia degli allestimenti. Alle spalle di Calderón c’è il canone della commedia ‘di santi’; e c’è, soprattutto, come valore di base, il concetto del ‘libero arbitrio’ umano (il libre albedrío). Questa dottrina si rivela subito congeniale all’attività dei drammaturghi, perché, grazie al principio della responsabilità individuale e dell’esercizio della volontà, sembra garantire alle messe in scena delle vite di santi, o di vicende di peccatori, spunti conflittuali, per così dire, di prammatica, impliciti nella stessa concezione del rapporto fra uomo e Dio, alla quale gli autori devono ispirarsi. Calderón occupa tutto lo spazio che l’idea di ‘libero arbitrio’ lascia aperto, in sede di trascrizione scenica, ai dilemmi della coscienza, alle lotte interiori, ai contrasti esasperati tra la fede e le tentazioni della superbia o dell’eros. Può attingere alle cronache e alla storia vera, idealizzandone i contorni, a mitiche ambientazioni del conflitto fra cultura pagana e cristiana, a leggende del Flos sanctorum, alla tradizione miracolistica medievale. Echi, in particolare, della dottrina dell’anima come forma del corpo (o della materia) sono reperibili nel disegno dei grandi peccatori calderoniani e nell’argomentare che presiede ai loro travagli spirituali.
Oggi Calderón non figura nei repertori dei grandi attori tragici e degli impresari teatrali con la stessa frequenza di Molière o di Shakespeare; ma qualcosa si muove nella qualità dell’approccio alla sua opera da parte di un pubblico colto, che, presumibilmente, ha cominciato a valutarlo in un modo più duttile e più sottile, cedendo, con maggior gusto e libertà che in passato, alla seduzione dei valori formali; dando finalmente spazio, insomma, a un’attrattiva più schietta per l’invenzione scenica, per le ambiguità del significato, per le componenti misteriche e immaginative della finzione teatrale.

Tratto dall’introduzione all’autore:
Calderón de la Barca e l’apogeo della ‘comedia’, di Carmelo Samonà
in: Teatro del ‘Siglo de Oro’: Lope de Vega, Tirso de Molina, Calderón de la Barca
a cura di Carmelo Samonà
1990, Garzanti, Milano

 


Su 'La vida es sueño'
Sono poche, pochissime le opere teatrali che possono reggere il confronto con La vida es sueño di Calderón per densità e dovizia di significati: tanto più che a quelli inerenti al testo, di per sé complessi e molteplici, altri significati vi ha depositato il corso del tempo, ma sempre in grazia della sua natura emblematica e polisemica.
A questi livelli, il punto in questione del dramma è l’essere o non essere d’una persona umana, impedita nell’esercizio della sua responsabilità individuale e nelle sue potenzialità operative e pubbliche: cosicché il dissidio tra vita e sogno, o tra verità e apparenza, vi subisce un processo d’interiorizzazione che naturalmente non esisteva nei racconti di vita-sogno delle fonti orientali o neoplatoniche, e tanto meno nei suoi derivati giochi della letteratura orale e scritta dei cancioneros. A controprova di ciò sta il fatto che non vi è traccia di sogno nell’opera di Calderón: qui non si narra e si rappresenta la storia d’un principe che sogna di ascendere al potere, ma d’un principe che, per recuperare il potere a lui spettante, cerca di liberarsi dal sogno; di liberarsi cioè da uno stato d’incertezza, che gli fa credere cose che non esistono. “Sogno” sta a significare una condizione sfuggente e precaria certo, ma anche uno stato di finzione e di menzogna, di paralisi parziale della volontà e un’angoscia dell’essere e dell’esistere, ‘il delitto d’esser nato’, che consiste nel non poter imporre agli altri il proprio essere ed esistere.
Favola del potere, che sì affronta ed esalta il tema del libero arbitrio di contro al principio di predestinazione all’idea di fatalità, ma lo articola e talora lo disarticola, con opportuni insinuazioni, verso concetti al limite della ortodossia controriformista.
Aver messo in scena un grande rovello metafisico è il risultato sublime di La vida es sueño. E se a questo si aggiungono i frequenti insistiti richiami alla ragione, il ricorso a una visione interiorizzata della libertà, messa a nudo nella dialettica verità-sogno, e una così severa concezione del bene, si vedrà perché l’opera centrale di Calderón contenga e continui a promanare un così sottile alone di modernità.

Tratto dalla nota introduttiva
in: Teatro del ‘Siglo de Oro’: Lope de Vega, Tirso de Molina, Calderón de la Barca
a cura di Carmelo Samonà
1990, Garzanti, Milano

 


CITAZIONI
Sul 'Libero Arbitrio'
in ordine cronologico, basato sulla data di nascita dell'autore

  • Aristotele
    ETICA NICOMACHEA
    1999, Laterza, Roma-Bari
    1. Volontario/involontario (P 77 – verso 30)
    Dato che la virtù riguarda passioni e azioni, e che lodi e biasimi vengono attribuiti per le azioni e le passioni volontarie, mentre per quelle involontarie si dà perdono e, a volte, pietà, distinguere il volontario dall’involontario è certo necessario, per coloro che esaminano il campo delle virtù, ed è utile anche ai legislatori, per quanto riguarda i premi e le punizioni. Si pensa che siano involontarie le azioni compiute per forza o per ignoranza.
    1. Volontario/involontario (P 79 – verso 29)
    A volte è difficile distinguere che cosa bisogna scegliere e a quale prezzo, e cosa si deve sopportare in vista di cosa, e anche più difficile è rimanere saldi nei giudizi, dato che per lo più i risultati sono dolorosi, e turpi le cosse cui veniamo costretti. Da ciò nascono lodi e biasimi riguardo a coloro che hanno subìto la costrizione o non l’hanno subita.
    4. Scelta (P 85 – verso 04)
    Dopo aver definito il volontario e l’involontario, di seguito si deve analizzare la scelta: essa pare essere strettamente connessa con la virtù, e permette di giudicare i caratteri ancora più delle azioni. È evidente, allora, che la scelta è un che di volontario, ma non è identica al volontario, perché esso ha maggiore estensione: infatti anche i fanciulli e gli altri animali hanno a che fare con ciò che è volontario, mentre la scelta è cosa a loro estranea; poi noi diciamo volontari gli atti improvvisi, ma non li diciamo frutto di una scelta.
    Quelli che dicono che la scelta è desiderio, impulso, volere, o una qualche forma di opinione, non ci pare che si esprimano correttamente. Infatti la scelta non si trova anche negli animali irrazionali, ma impulso e desiderio sì. Chi non si sa dominare agisce per desiderio, ma non secondo una scelta, mentre chi si domina agisce per scelta, ma non per desiderio. E il desiderio si oppone alla scelta, ma non si oppongono desiderio e desiderio. E il desiderio riguarda il piacere e il dolore, mentre la scelta non riguarda né piacere né dolore. Ancor meno la scelta è impulso, infatti le cose compiute per impulso non sembrano affatto essere frutto di una scelta. La scelta non è nemmeno volere, sebbene sia evidente che è della stessa specie: non si dà infatti scelta delle cose impossibili, e se uno affermasse di sceglierle sembrerebbe un insensato; invece si dà volere degli impossibili, per esempio dell’immortalità. E mentre il volere, sebbene sia evidente che è della stessa specie: non si dà infatti scelta delle cose impossibili, per esempio dell’immortalità. E mentre il volere riguarda anche le cose che non vengono affatto compiute da chi le vuole, per esempio che un certo attore, o un certo atleta, vincano la gara, nessuno sceglie cose simili, ma ognuno sceglie quelle che ritiene dipendere da lui. Inoltre il volere è soprattutto relativo al fine, mentre la scelta è di ciò che porta al fine; per esempio: vogliamo essere sani, e scegliamo le cose per mezzo delle quali saremo sani; vogliamo essere felici, e questo possiamo dirlo, ma non è corretto dire: ‘Scegliamo di essere felici’; in generale infatti sembra che la scelta riguardi quello che dipende da noi.
    Perciò la scelta non sarà nemmeno opinione. Infatti l’opinione pare che sia rivolta a ogni oggetto, alle cose eterne e a quelle impossibili non meno che a quelle che dipendono da noi; e si divide con il criterio del vero e del falso, non con il criterio del bene e male, mentre la scelta si divide soprattutto in base a questi.
    6. Volere (P 93 – verso 23)
    In assoluto e secondo verità, oggetto del volere è il bene, ma che per ciascuno è il bene apparente; che per l’uomo eccellente è il bene secondo verità, mentre per l’uomo dappoco è ciò che capita… Infatti l’uomo eccellente giudica ogni cosa in modo corretto, e a lui appare evidente la verità in ogni singolo caso.
    7. Volere (P 95 – verso 03)
    Dato quindi che il fine è voluto, mentre i modi per raggiungerlo sono deliberati e scelti, le azioni che riguardano quei modi saranno secondo scelta e volontarie. Le attività delle virtù riguardano quei modi. Anche la virtù dipende da noi, come pure il vizio: infatti in ciò in cui dipende da noi l’agire, dipende anche da noi il non agire, e in ciò in cui dipende da noi il no, dipende da noi anche il sì. Di modo che se l’agire, quando è bello, dipende da noi, dipenderà da noi anche il non agire, quando è turpe, e se dipende da noi il non agire, quando è bello, dipenderà da noi anche l’agire, quando è turpe. Se quindi dipende da noi compiere le azioni belle e le azioni turpi, e allo stesso modo anche il non compierle – e questo è ciò che avevamo detto essere ciò in cui consistono la bontà e la cattiveria – dipenderà da noi, allora, anche l’essere persone dabbene o dappoco. E dire che:
    Nessuno è volontariamente miserabile,
    né involontariamente felice
    sembrerebbe in parte falso, in parte vero. Infatti nessuno è involontariamente felice, ma la cattiveria è cosa volontaria.
    3. Delibera (P 117 – verso 25)
    La temperanza e l’intemperanza riguardano piaceri di questo genere, tali che ne partecipano anche gli altri animali, e a partire da ciò è evidente  che sono piaceri degni di schiavi e di bestie: tali sono il tatto e il gusto.

  • Sant'Agostino
    GRAZIA E LIBERTÁ
    1987, Città Nuova Editrice, Roma
    P 27 – 2.4
    Quando si dice: Non volere questo o non volere quello, e quando negli ammonimenti divini a fare o a non fare qualcosa si richiede l’opera della volontà, il libero arbitrio risulta sufficientemente dimostrato. Nessuno dunque, quando pecca, accusi Dio nel suo cuore, ma ciascuno incolpi se stesso; e quando compie un atto secondo Dio, non ne escluda la propria volontà. Quando infatti uno agisce di proprio volere, è allora che bisogna parlare di opera buona ed è allora che per quest’opera buona bisogna sperare la ricompensa da Colui del quale è detto: Renderà a ciascuno secondo le sue opere.
    P 67 – 15.31
    Sempre c’è in noi una volontà libera, ma non sempre essa è buona. Infatti o essa è libera dal vincolo della giustizia, quando è serva del peccato, e allora è cattiva; o è libera dal vincolo del peccato, quando è serva della giustizia, e allora è buona. Ma la grazia di Dio è sempre buona, e per mezzo di essa avviene che sia uomo di buona volontà quello che prima era di volontà cattiva. Sempre per mezzo di essa avviene anche che la stessa volontà buona, quando ormai ha cominciato ad esistere, si accresca e diventi tanto grande da essere in grado di adempiere i precetti divini che vuole, se vuole intensamente e perfettamente.

  • Marsilio da Padova (ovvero Marsilio dei Manardini)
    IL DIFENSORE DELLA PACE
    1991, ed. Marsilio, Venezia
    PRIMO DISCORSO – Capitolo V (P 113-115)
    Sulla distinzione delle parti della città, e sulla necessità della loro esistenza separata per un fine che può esserle assegnato dall’invenzione umana
    11. Tuttavia, al di là di queste cause per cui sono state poste le leggi religiose – cause che possono essere credute senza bisogno di dimostrazione –, i filosofi, e tra questi Esiodo, Pitagora e molti altri degli antichi, scorsero giustamente una causa o scopo assai diverso per cui istituire le leggi divine o religioni, e, cioè, uno scopo che, in certo senso, era necessario per lo stato di questo mondo. Questo scopo consisteva nell’assicurare la bontà degli atti umani, sia individuali che civili, donde dipende quasi completamente la quiete o tranquillità delle comunità e, infine, la vita sufficiente nel mondo presente. E sebbene alcuni filosofi che stabilirono tali leggi o religioni non credessero a quella vita futura che chiamavano eterna ed alla resurrezione umana, nondimeno finsero e persuasero gli altri che questa vita esistesse, e che in essa i piaceri e le pene fossero proporzionali alle qualità degli atti umani compiuti in questa vita mortale, affinché, in tal modo, potessero immettere negli uomini la riverenza e il timore di Dio e il desiderio di fuggire i vizi e di coltivare le virtù. Difatti, vi sono certi atti che il legislatore non può regolare con la legge umana, e cioè, quegli atti che non si può provare se siano assenti o presenti in un uomo, ma che tuttavia non possono restare nascosti a Dio, che questi filosofi fingevano esser l’autore di quelle leggi e Colui che ne comandava l’osservanza, con la promessa di una ricompensa eterna per chi agisse bene e con la minaccia della punizione per chi agisse male. Per questo appunto essi dissero che certi uomini erano stati posti nel firmamento celeste e che di qui erano forse derivati i nomi di certe stelle o costellazioni. Questi filosofi dicevano che le anime degli uomini che agirono ingiustamente entravano invece nei corpi dei diversi bruti; e, per esempio, che le anime degli uomini che erano stati intemperanti nel mangiare entravano nel corpo dei porci, quelle di coloro che erano stati intemperanti nell’amore entravano nei corpi dei caproni, e così via, secondo le proporzioni tra i vizi umani e le loro vergognose proprietà. Così pure i filosofi assegnarono diversi generi di tormenti a chi agiva ingiustamente, come la sete e la fame perpetua all’intemperante Tantalo: l’acqua e la frutta gli arrivavano vicine, ma egli era incapace di berla e di afferrarle, poiché si ritiravano sempre più rapidamente di quanto impiegava per raggiungerle. I filosofi dicevano inoltre che le regioni infernali, luogo di questi tormenti, erano abissali e oscure; e dipingevano ogni sorta di terribili e oscuri quadri di quei luoghi. Per timore di ciò, gli uomini evitavano di agire male, erano spinti a compiere virtuose opere di pietà e di misericordia ed erano ben disposti sia nei riguardi di sé stessi che degli altri. E, come conseguenza, cessarono molte dispute e offese che si verificavano nelle comunità. Così, con poca difficoltà, vennero preservate la pace e la tranquillità dello Stato e la vita sufficiente degli uomini per lo stato della vita presente, che era appunto il fine cui miravano quei saggi stabilendo delle leggi o religioni.

  • Erasmo da Rotterdam
    SUL LIBERO ARBITRIO
    1989, Edizioni Studio Tesi, Pordenone
    P 09
    Se mi risultasse che non è richiesta penitenza per il male che si è commesso, avrei scrupolo tuttavia a divulgare tale idea, perché vedo che la maggior parte degli uomini è straordinariamente propensa a commettere turpitudini, mentre ora la necessità di confessarsi, in qualche modo, riesce a frenarle o, per lo meno, le riduce. Ci sono alcune infermità del corpo che causano minor male a tenersele che a volerle guarire, per esempio massacrare dei neonati per guarire dalla lebbra lavandosi nel loro sangue caldo. Così ci sono alcuni errori che creano minore danno a nasconderli che a sradicarli. Paolo sa la differenza tra il lecito e l’utile. Diciamo il vero: la verità non è giovevole per qualsiasi persona, o in qualsiasi momento, o in qualsiasi modo…
    Immaginiamo, dunque, che sia vero sotto un qualche aspetto ciò che sostenne Wiclif, e che ha ripreso Lutero, che “Tutto ciò che è fatto da noi, non si fa per libero arbitrio, ma per pura necessità”; che cosa c’è di più inutile nel diffondere tra la gente questo paradosso? E, ancora, immaginiamo che sia vero, secondo un determinato punto di vista, ciò che Agostino scrive in un suo libro, cioè che Dio opera in noi cose buone e cattive, e che sempre in noi premia le sue opere buone e punisce quelle cattive: a quanti uomini quest’idea spalancherebbe la strada per comportarsi da empi, se fosse diffusa?
    P 10
    L’animo degli uomini è per lo più grossolano e rivolto ai sensi, disposto all’incredulità, proclive ai misfatti, propenso alla bestemmia, sicché non c’è bisogno di aggiungere olio al fuoco.
    P 17
    Con l’espressione “arbitrio” noi definiamo in questa sede la forza della volontà umana, per la quale l’uomo può dedicarsi alle cose che lo portano alla salvezza eterna o allontanarsi da esse.
    P 19
    Come in coloro che sono privi di grazia la ragione è stata messa in ombra, non spenta, così è probabile che nelle stesse persone la forza della volontà non sia stata completamente estinta, ma sia diventata solo inefficace a compiere cose buone. Quello che l’occhio è per il corpo, la ragione è per l’animo …Da ciò nasce per noi un triplice genere di legge: quella di natura, quella delle opere, quella della fede, per usare le parole di Paolo. La legge di natura, scolpita nelle menti di tutti, tanto presso gli sciiti che presso i greci, ripete che è cosa iniqua se uno fa ad un altro ciò che non vuole sia fatto a sé. E i filosofi antichi conobbero l’eterno valore e la divinità di Dio deducendolo dalle cose create, senza la luce della fede, senza il sostegno della divina Scrittura, e ci lasciarono molti precetti riguardo il vivere bene, in straordinaria armonia con quelli evangelici, ed esortarono alla virtù con molte parole, rifiutando ciò che è turpe.
    P 21
    Il libero arbitrio ha ricevuto una menomazione dal peccato, ma non è stato spento, e sebbene si sia azzoppato, tanto che prima della grazia siamo più inclini al male che al bene, tuttavia non è stato stroncato. Succede, però, che l’enormità dei crimini e l’abitudine a peccare, diventando quasi una seconda natura, talvolta offuschino il giudizio della mente e schiaccino il libero arbitrio, in modo tale che, spento il giudizio, anche la libertà è completamente perduta.
    P 75
    Cercheremo di chiarire anche con esempi ciò che diciamo. L’occhio dell’uomo, per quanto sano, non vede affatto al buio, e, quando è cieco, neanche alla luce: così la volontà, per quanto libera, non può nulla se si sottragga alla grazia; però, infusa la luce, chi ha gli occhi sani può chiuderli per non vedere, o rivolgerli dall’altra parte, così da cessare di vedere quanto vedeva. Più debito ha, invece, chi possedeva gli occhi impediti da un qualche difetto. In primo luogo, ha debito col Creatore, poi col medico. Prima del peccato l’occhio era sempre sano, col peccato si è rovinato. A questo punto, che merito può arrogarsi chi vede? E tuttavia può attribuirsi qualcosa, se chiuda o apra gli occhi consapevolmente.

  • Martin Lutero
    OPERE SCELTE – IL SERVO ARBITRIO
    risposta a Erasmo
    1993, Claudiana Editrice, Torino
    ANALISI DELLA PREFAZIONE DI ERASMO (P 129)
    Conclusioni
    Il succo di tutto è quello che in breve si sarebbe potuto formulare nel seguente dilemma: o la tua prefazione ha per oggetto la parola di Dio oppure le parole degli uomini. Se ha per oggetto le parole degli uomini, è stata scritta invano e non ci riguarda. Se invece ha per oggetto la parola di Dio, è del tutto empia. Ragion per cui sarebbe stato più utile dire subito se disputiamo intorno alle parole divine o a quelle umane.
    Quanto poi ripeti alla fine della prefazione, dove chiami i nostri dogmi favole e inutili fantasie, non ci turba affatto. Lo stesso vale quando dici che, secondo l’esempio di Paolo, si deve piuttosto predicare Cristo crocifisso [I Cor. 1,23; 2,2]; che la sapienza deve essere insegnata fra i perfetti [I Cor. 2,6 ss.]; che il linguaggio proprio della Scrittura è stato variamente adattato a seconda degli uditori, per cui ritieni che si debba lasciare alla saggezza e alla carità di ogni predicatore di insegnare ciò che possa convenire al prossimo.
    ANALISI DELLA PREFAZIONE DI ERASMO (P 130)
    Conclusioni
    Infine sostieni che nessuna delle espressioni che dipingono Dio mentre va in collera, si infuria, odia, soffre, si commuove, si pente è propria della natura divina. Qui si cerca il pelo nell’uovo. Queste espressioni infatti non rendono la Scrittura oscura o tale da doverla adattare ai vari uditori, a meno di non voler creare delle oscurità dove non ce ne sono. Sono costruzioni grammaticali e figure retoriche che anche i fanciulli hanno imparato a conoscere. Noi però in questa disputa trattiamo di verità e di fede, non strutture grammaticali.
    ANALISI DELL’INTRODUZIONE DI ERASMO
    L’autorità di ciò che è antico non può essere prova sicura del libero arbitrio (P 135)
    Perché meravigliarsi se coloro che sono stati santi, pervasi dallo Spirito e capaci di compiere miracoli, vinti talvolta dalla carne, hanno parlato e agito secondo la carne, quando ciò è accaduto non di rado anche gli apostoli sotto gli occhi di Cristo? E difatti non neghi, anzi, al contrario affermi che il libero arbitrio non è affare dello Spirito o di Cristo ma degli uomini. Pertanto lo Spirito, che è stato promesso per glorificare Cristo [Rom. 1,4], non può in alcun modo predicare il libero arbitrio. Se dunque i padri hanno talora insegnato il libero arbitrio, di certo hanno parlato secondo la debolezza della carne (dal momento che erano degli uomini) e non secondo lo Spirito di Dio; ancor meno hanno compiuto miracoli a favore di questa dottrina. Perciò il tuo ricorrere alla santità, allo Spirito e ai miracoli dei padri è inutile, poiché tutto questo prova, non già il libero arbitrio, bensì la dottrina di Gesù Cristo contro il libero arbitrio.
    Ma voi (Erasmo) che siete dalla parte del libero arbitrio e sostenete che questa dottrina è vera, cioè che proviene dallo Spirito di Dio, ebbene, fate vedere una buona volta questo Spirito, compite dei miracoli, mostrate la santità! Voi che affermate il libero arbitrio, voi dovete esibire queste cose a noi (Lutero) che lo neghiamo. Da noi che lo neghiamo non di deve pretendere Spirito, santità, miracoli; li si deve invece pretendere da voi che lo affermate. Quando la negazione non pone nessun assioma, non è tenuta a fornire alcuna dimostrazione; è l’affermazione che deve essere provata. Voi sostenete che il libero arbitrio è una forza e una realtà umana, ma finora non si è visto né udito di alcun miracolo compiuto da Dio a sostegno di una dottrina concernente cose umane, ma solamente a sostegno di dottrine concernenti cose divine.
    ANALISI DELL’INTRODUZIONE DI ERASMO
    L’autorità di ciò che è antico non può essere prova sicura del libero arbitrio (P 139)
    Gli uomini non restano i medesimi quando rivolgono la loro attenzione alle parole e alle discussioni, e quando sono intenti ai sentimenti e alle opere. Nel primo caso, parlano diversamente da quello che sentono; nel secondo, sentono diversamente da quello che dicono. Ma gli uomini, tanto quelli pii quanto quelli empi, devono essere giudicati per il loro cuore piuttosto che per le loro parole.
    Ma vi concediamo ancora di più: non pretendiamo i miracoli, lo Spirito, la santità; ci atteniamo alla dottrina in sé. Chiediamo questo soltanto: che per lo meno ci indichiate quale opera, quale parola, quale pensiero debba compiere, esprimere o formulare questa forza del libero arbitrio per volgersi alla grazia. Non è infatti sufficiente ripeter in continuazione: “Esiste, esiste, esiste una forza del libero arbitrio”; che cosa c’è infatti di più facile a dirsi? Né questo si conviene a degli uomini così colti e santi, stimati come tali nel corso dei secoli; ma – come dice un proverbio tedesco – il bambino deve pur avere un nome, si deve cioè definire che cosa sia questa forza, che cosa compia, cosa subisca, cosa le accada. A mo’ d’es., invero piuttosto grossolano, si chiede questo: se quella forza obblighi o anche solo induca a pregare, o a digiunare, o a lavorare, o a mortificare il corpo, o a fare l’elemosina, oppure qualcos’altro ancora di questo genere. Se infatti si tratta di una forza, deve pur compiere qualcosa.
    ANALISI DELL’INTRODUZIONE DI ERASMO
    L’autorità di ciò che è antico non può essere prova sicura del libero arbitrio (P 142)
    Si tratta di una dottrina umana che non possiede la testimonianza dello Spirito; è stata infatti discussa dai filosofi ed esisteva prima ancora che venisse Cristo e fosse inviato lo Spirito dal cielo. È pertanto assolutamente certo che questa dottrina non proviene dal cielo, bensì è nata dalla terra e ha pertanto bisogno di una grande testimonianza che ne confermi la certezza e la verità.
    Noi siamo pochi e semplici privati, voi invece siete uomini pubblici e numerosi; noi ignoranti, voi coltissimi; noi rozzi, voi pieni di spirito; noi nati ieri, voi più vecchi di Deucalione (figlio di Prometeo, nella mitologia greca era considerato il capostipite del genere umano); noi non siamo mai stati accettati, voi siete stimati attraverso i secoli; infine, noi siamo peccatori, carnali, deboli di spirito, voi al contrario per la santità, lo Spirito, i miracoli siete temuti persino dai demoni. Concedeteci almeno il diritto riconosciuto ai turchi e agli ebrei di chiedere ragione della vostra dottrina, come ve lo ha comandato il vostro Pietro [I Pie. 3,15].
    ESAME DEGLI ARGOMENTI ERASMIANI A FAVORE DEL LIBERO ARBITRIO
    La definizione erasmiana di “libero arbitrio” (P179)
    Sopra abbiamo infatti mostrato che il libero arbitrio non spetta ad altri che a Dio. Potresti forse attribuire a buon diritto un qualche attributo all’uomo, ma assegnargli un libero arbitrio nelle cose divine, questo è troppo. In effetti, a giudizio di tutti, l’espressione 'libero arbitrio' indica propriamente un arbitrio che, di fronte a Dio, può e fa ciò che gli piace, senza essere ostacolato da nessuna legge e da nessun comando. Così, come non chiameresti libero un servo che agisce sotto il comando di un padrone, ancor meno possiamo chiamare a buon diritto libero un uomo o un angelo i quali vivono sotto l’imperio assoluto di Dio (per non dire del peccato e della morte), tanto da non poter sussistere neppure un istante con le loro sole forze. Quindi fin dall’inizio entrano qui in contrasto la definizione del termine e quella dell’oggetto; il termine indica infatti una cosa e quella che si intende per oggetto un’altra. Più correttamente si dovrebbe parlare di arbitrio 'variabile' o 'mutabile'. Così infatti Agostino e dopo di lui i sofisti sfumano l’altisonanza e la forza della parola 'libero' e, grazie a questa attenuazione, parlano di mutabilità del libero arbitrio.

 

La presente catalogazione riguardante il libero arbitrio, è tratta da alcuni dei testi riportati in bibliografia.

 


Sul mestiere d’attore
L’attore è colui il quale agisce di fonte a un pubblico, sostenendo una parte in uno spettacolo. Il termine (dal latino actor-oris) deriva etimologicamente da agere, agire, e si riferisce a una finzione non raccontata o descritta, ma rappresentata, in atto, dinanzi agli spettatori. L’attore è, pertanto, l’interprete di un’azione drammatica raffigurata scenicamente.

L’attore nel fenomeno teatrale
L’attore rappresenta l’opera dell’autore, incarnandone i personaggi davanti a un pubblico. Da un lato, compie una sintesi fra il personaggio di fantasia e la sua determinata persona; dall’altro, funge da mediatore fra l’opera d’arte e lo spettatore, nella definitiva unità dello spettacolo. L’attività dell’attore è dunque un’azione di collegamento, che si svolge attraverso un duplice processo di metamorfosi: mentre l’attore rinuncia, ogni volta in forma e misura diversa, alla propria identità per favorire il personaggio di fantasia, allo stesso tempo, interpreta quel medesimo personaggio secondo i modi più famigliari e comprensibili allo spettatore. Questo processo di metamorfosi è condizionato da diversi elementi:

ELEMENTI SOGGETTIVI
figura
temperamento
carattere
qualità mimiche

ELEMENTI OGGETTIVI
ambito etnico e linguistico
categoria sociale
scuola, tradizione, tecnica
ambiente fisico

 

CLASSIFICAZIONE DELL’ATTORE
(secondo gli elementi soggettivi)
per genere:
drammatico:
comico, tragico
per repertorio (o stile):
classico
romantico
naturalistico
per ruoli (o emplois):
primattore
amoroso
ingenua
tiranno
soubrette

CLASSIFICAZIONE DELL’ATTORE
(secondo gli elementi oggettivi)
attore della tragedia greca

istrione o giocoliere romano

chierico o laico del medioevo cristiano

gentiluomo del rinascimento

commediante dell’arte

attore cortigiano barocco

comici nomadi e interpreti di teatri stabili

 

La presente sintesi strutturale riguardante il mestiere d’attore, è tratta da alcuni dei testi riportati in bibliografia.

 


Sul mestiere d’attore, nella storia delle rappresentazioni teatrali
Come sopra riportato, l’attore è colui il quale recita, interpreta, sostiene un ruolo all’interno di un testo drammatico. Il termine attore, deriva da atto (lat. actum) ‘azione, gesto’, a sua volta tratto da agere ‘mettere in moto, fare, agire’. Pertanto, la voce presenta un’estensione vastissima, significando non solo i movimenti espressivi del volto e del corpo, compiuti di proposito, ma anche le positure e gli atteggiamenti involontari. Tali comportamenti rendono così l’attore ambiguamente sdoppiato tra le caratteristiche razionali dell’uomo e quelle istintive dell’animale.
Nel tentativo di fornire un’ulteriore lettura espressiva, viene di seguito riportata una sintesi dei concetti filosofici in cui, tale voce, assume la sua accezione più alta. Nella filosofia greca, atto è infatti ‘ciò che non è più in potenza, ossia virtuale, da attuarsi, ma è compiuto, attuato’: non vi è atto che, nell’atto stesso in cui si pone come atto. Nella filosofia moderna idealistica, invece, la voce (atto puro), assume un significato più ampio, riconducibile all’intelletto: il pensiero in quanto atto per eccellenza, anzi unico atto esistente, produttore di ogni contenuto del pensiero stesso e perciò di ogni realtà.
A tal riguardo, e in base a quanto detto sopra, si rende necessaria una breve rassegna storica sul mestiere d’attore, ripartita in periodi temporali distinti:

  • GRECIA ANTICA
    Tespi d’Icaria, Eschilo, Sofocle
    distacco dal coro: nascita del protagonista, deuteragonista, tritagonista

    La figura dell’attore nacque verso il VI secolo aC allorché Tespi d’Icaria, personaggio dai contorni leggendari che la tradizione indica come iniziatore del genere tragico, distaccò dal coro il protagonista o primo attore. Eschilo introdusse poi nella tragedia il secondo attore (deuteragonista) e Sofocle il terzo (tritagonista). In seguito nessun genere di teatro greco, né tragico, né satirico, né comico, utilizzò più di tre attori. Questi impersonavano anche le parti femminili (ciascun attore recitava più di una parte), indossando maschere e costumi complicati che li costringevano a rimanere quasi immobili sulla scena.

  • ETRURIA
    Gli histriones
    attori-giullari girovaghi

    Il termine histrio, accettando una notizia di Livio (VII 2, 4-6), si crede di derivazione etrusca: (h)ister. Con questo nome erano definiti gli attori etruschi venuti a Roma per i ludi scaenici del 364 aC; in seguito, viene utilizzato dai romani anche per gli attori indigeni.

  • ROMA IMPERIALE
    Pubblio Pellione, con Plauto; Ambivio Turpione e Atilio di Preneste, con Terenzio
    divieto d’esibizione per i cittadini romani; dominus gregis

    Nell’antica Roma l’esibirsi in pubblico contravveniva ai principi di dignitas a cui i buoni cittadini dovevano uniformarsi. La professione d’attore era quindi considerata infamante e rigorosamente vietata ai cittadini romani, pena la decadenza dei diritti civili. Gli attori venivano reclutati fra gli schiavi e i liberti; dalle scene erano escluse le donne, che entrarono a far parte di compagnie teatrali solo all’epoca del basso Impero. Degna di nota, nel mondo teatrale romano, è la figura del dominus gregis: primo attore e direttore di compagnia, il quale sceglieva il repertorio della compagnia stessa e acquistava direttamente dall’autore i drammi da rappresentare. Famosi direttori di compagnia furono Publilio Pellione, che rappresentò le commedie di Plauto, Ambivio Turpione e Atilio di Preneste quelle di Terenzio.

  • MEDIOEVO
    Attori dilettanti: ecclesiastici e laici; giullari
    dramma liturgico; scenette comiche giullaresche

    La condanna che nella Roma antica escludeva l’attore dalla società con la qualità di infamis, fu ripresa dalla caduta di Roma all’alto medioevo, in termini ancor più rigorosi, dalla chiesa. Ripetuti anatemi furono scagliati contro attori mimi itineranti e contro gli attori di opere profane in genere: l’attore era considerato strumento del demonio, non solo perché mostrava agli spettatori ‘scene dissolute’ sia nella tragedia che nella commedia, ma perché il mondo etico al quale si rifaceva e che contribuiva a mantenere in vita era quello del paganesimo. Tale atteggiamento di ostilità perdurerà nei secoli: la chiesa assumerà tuttavia una diversa espressione nel basso medioevo e nel rinascimento verso gli attori dilettanti del teatro religioso, che rappresentavano: dramma liturgico, sacra rappresentazione, lauda drammatica, ecc., e il prendervi parte era considerato un atto di devozione e di culto. Interpreti di quel teatro furono, nei primi tempi, solo ecclesiastici, membri di confraternite religiose e di corporazioni artigiane. Unici attori professionisti del tempo erano i giullari (acrobati, ballerini, cantanti, dicitori di tiritere comiche, interpreti di scenette scurrili) che giravano di città in città, di corte in corte.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Italia (‘400-‘500)
    Attori dilettanti e compagnie: della Calza a Venezia e del Sasso a Perugia
    commedia erudita, favola pastorale, tragedia classicheggiante

    Quando, con l’Umanesimo e il Rinascimento, si affermò il carattere profano del teatro (commedia erudita, favola pastorale, tragedia classicheggiante), lo spettacolo teatrale fece, ancora, quasi sempre a meno di attori professionisti. Il recitare fu infatti considerato una necessaria esperienza culturale da nobili, umanisti, accademici e studenti. Fra le compagnie di nobili del XV e XVI secolo si distinsero quelle della Calza a Venezia e del Sasso a Perugia; derivazione delle confraternite religiose e artigianali furono invece le compagnie di dottrina fiorentine: dei Vangelista, del Freccione, dell’Agnese, a cui appartennero anche i figli di Lorenzo il magnifico. Eccezionale rilievo ebbe per tutto il ‘500 l’attività teatrale delle accademie. Fra le rappresentazioni rimaste memorabili: la Sofonisba del Trissino (1564) e la Mandragola di Macchiavelli (1564), rappresentate dagli Olimpici di Vicenza; la Talanta, scritta dall’Aretino per i Sempiterni di Venezia (1561) e, negli stessi anni, L’assiuolo del Cecchi e L’errore del Gelli rappresentate dai Fantastici di Firenze.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Italia (‘550-‘650)
    Le compagnie professioniste dei comici dell’arte
    virtuosismo vocale e mimico; improvvisazione su canovaccio

    Tra la metà del XVI e la metà del XVII secolo si assistette al fiorire di compagnie professionistiche dette dei comici dell’arte (arte significa appunto professione o mestiere). I comici dell’arte, rappresentanti di un teatro (Commedia dell’Arte) che alle pretese morali e culturali doveva anteporre il gradimento del pubblico, svilupparono una elaboratissima ed eclettica tecnica di recitazione fatta di virtuosismo vocale e mimico. Le compagnie dell’arte erano di solito formate da un nucleo famigliare rafforzato da attori scritturati o associati e comprendevano anche donne. I comici impersonavano, a seconda dell’età e dell’aspetto, ruoli fissi o maschere e recitavano improvvisando su un canovaccio, copione privo di dialoghi contenente solo la successione delle scene e le situazioni. Contro i comici dell’arte si levò l’ostilità della chiesa e delle autorità civili.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Italia (‘600)
    Francesco e Isabella Andreini
    la commedia dell’arte nelle corti d’Europa e gli accademici

    Nel Seicento attori colti e intelligenti quali Francesco e Isabella Andreini, Tiberio Fiorilli detto Scaramuccia, e i due famosi arlecchini Tristano Martinelli e Domenico Biancolelli portarono la professione a un superiore livello di gusto, e famose compagnie di comici diffusero il teatro dell’arte presso le corti e le genti di tutta Europa. Sempre nel Seicento, accanto ai comici dell’arte continuarono a essere attivi gli accademici, seppur privi della vitalità ottenuta nel secolo precedente, i nobili e gli studenti: per influenza del teatro barocco spagnolo, si diffuse fra essi il gusto della recitazione magniloquente e retorica, del gesto ridondante, della recitazione ampollosa.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Italia (‘700) 
    Girolamo Medebach e la riforma teatrale di Goldoni
    recitar bene: dialoghi tra attori, conoscenza del testo, condizione civile
    Nel Settecento con la progressiva diminuzione dei teatri di corte e la nascita della figura dell’impresario, si assistette alla scomparsa dei tradizionali attori dilettanti (accademici, studenti e nobili). Gli attori professionisti che a essi si sostituirono, provenivano quasi tutti dalla Commedia dell’Arte ormai languente. Tipico esempio di compagnia nuova fu quella di Girolamo Medebach, considerata fra le migliori del secolo, che ebbe il merito di assecondare la riforma teatrale del Goldoni. Garbo e naturalezza, secondo il Goldoni, erano indispensabili per recitar bene; di qui la necessità di liberarsi dei vezzi tipici dei commedianti: il guardare sempre verso il pubblico e non all’interlocutore sulla scena; il non sapere che approssimativamente la parte, contando sul suggeritore, ecc. Inoltre, il teatro goldoniano esigeva, anche dal punto di vista del costume di vita, un tipo nuovo di attore, attento al suo lavoro, alieno dalla vanità e dal divismo. C’è, nella concezione goldoniana, un apprezzamento della condizione civile dell’arte che ben rappresenta la cultura illuminista.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Italia (‘800)
    La figura del mattatore e le sue potenzialità. Eleonora Duse
    ruoli scelti in base alle capacità del capocomico

    Nei primi anni dell’Ottocento entrò in vigore anche in Italia il regolamento napoleonico sui teatri, che prevedeva l’istituzione di compagnie drammatiche permanenti sovvenzionate dallo Stato. Le compagnie stabili rappresentarono tuttavia solo gloriose eccezioni nel panorama teatrale del XIX secolo, caratterizzato in Italia, a differenza di quasi tutti gli altri paesi europei, da una ripresa del nomadismo delle compagnie. Prevalse fra le compagnie girovaghe quella capocomicale, detta anche compagnia a mattatore: il mattatore (primattore, direttore, impresario) si circondava di attori di scarso rilievo e nello stabilire il repertorio era guidato spesso dalla preoccupazione di scegliere quelle opere che più si addicevano alle sue possibilità. Famosi attori non alieni da atteggiamenti mattatoriali, ma dotati di effettive grandi qualità e di eccezionale presa sul pubblico furono: Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, Giovanni Emmanuel, Ermete Novelli, Ermete Zacconi, e, fra le donne, Adelaide Ristori. Prima di essi, Gustavo Modena, il più grande degli attori romantici, il cui impegno artistico non fu inferiore all’impegno civile e politico. Il XIX secolo, epoca dei grandi attori, si chiuderà con i trionfi della irrequieta Eleonora Duse.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Italia (‘900)
    Compagnie di giro e nascita dei Teatri Stabili
    la scissione fra capocomico e primattore

    Le condizioni economiche degli attori in questo periodo, se si escludono i famosi capocomici, restano ancora precarie: paghe bassissime; vestiario, viaggio e trasporto dei bagagli a carico dello scritturato; nessun compenso per le prove. Questo stato di cose condusse alla costituzione, nel 1902, di una Lega di miglioramento degli artisti drammatici, che nel 1919 promosse i primi scioperi di categoria. Al periodo fra le due guerre risale anche l’acuirsi della crisi della compagnia a sistema capocomicale, che portò negli anni seguenti alla scissione fra il capocomico e il primattore: compagnie di questo tipo furono quelle di Ruggero Ruggeri, Memo Benassi, Alessandro Moissi, Antonio Gandusio, Renzo Ricci. Nel campo dialettale, eredi della gloriosa tradizione dei Ferravilla, Scarpetta, Zago e Grasso, furono Viviani, Giacchetti, Musco, Govi, Baseggio e i tre De Filippo. Nello stesso periodo, Luigi Pirandello fonda il Teatro d’Arte di Roma. Dopo la seconda guerra mondiale, contro il declino delle compagnie di giro cominciarono ad affermarsi i nuovi teatri stabili, sovvenzionati dai comuni e dallo Stato.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Spagna (‘500-'600)
    L'auto sacramental
    i carros

    Il dramma religioso spagnolo fiorì nel XVI e XVI secolo, proprio mentre negli altri paesi europei veniva soppresso. In questo periodo si sviluppò una forma particolare di dramma religioso: l’auto sacramental, che riuniva in sé le caratteristiche delle moralità e dei drammi ciclici; accanto a personaggi umani e religiosi agivano figure allegoriche come il Peccato, la Grazia, il Piacere, il Dolore e la Bellezza. Le storie potevano essere ispirate anche a temi secolari, purché illustrassero la virtù dei sacramenti e la validità dei dogmi della chiesa. Fino al 1550 la responsabilità della messa in scena era affidata alle corporazioni di arti e mestieri, in seguito passò al consiglio comunale, e qui, il rapporto tra teatro religioso e professionale diventò particolarmente stretto. Gli spettacoli erano montati sui carros, forniti dalla municipalità; si trattava di carri di legno a due piani, coperti di tele dipinte ed equipaggiati in base alle istruzioni date dall’autore del testo.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Spagna (‘580-'680)
    Il ‘secolo d’oro’ del dramma spagnolo
    Lope de Vega e Perdo Calderón de la Barca

    Lo scrittore più prolifico fu Lope de Vega, particolarmente abile nel tenere alta la tensione delle vicende rappresentate. Spesso l’azione si sviluppa dal conflitto tra le esigenze dell’amore e dell’onore, tema quest’ultimo che l’autore contribuì a rendere popolare, e lasciò in eredità a tutto il successivo dramma spagnolo. I personaggi provengono da tutti i ceti e le condizioni sociali, il loro linguaggio è appropriato ai diversi caratteri, e si avvale di distinte forme metriche. Calderón de la Barca, a differenza di Lope de Vega e dei suoi contemporanei, scrisse principalmente per il teatro di corte, soprattutto autos sacramentales. Mentre i drammi profani possono essere suddivisi in due categorie: le commedie di cappa e spada, costruite su intrighi amorosi ed equivoci a lieto fine, e le opere serie, molte delle quali trattano il tema della gelosia e dell’onore.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Spagna (‘700-'800)
    L’attore Isidoro Máiquez e la battaglia allo stile declamatorio
    gli scrittori riparano a Parigi

    Nel ‘700, in seguito alla morte di Carlo II, il teatro di corte subì un rapido declino. Tra fine secolo e inizio ‘800 emerge, comunque, la figura di Isidoro Máiquez che, dopo aver recitato in provincia, debutta al Teatro del Principe nel 1791, divenendo il miglior attore di Madrid. Recatosi a Parigi, studia le tecniche di recitazione di Talma, imponendole in Spagna, dove s’impegna a combattere l’antiquato stile declamatorio e a promuovere un tipo di recitazione più naturale. La repressione che nel 1815 seguì la caduta dell’impero napoleonico fu particolarmente dura in Spagna e molti scrittori ripararono all’estero, soprattutto a Parigi, dove entrarono in contatto con i fermenti della rivoluzione romantica.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Spagna (‘800-'900)
    Lo sviluppo delle compagnie
    Adriá Gual e il ‘Teatre Intim’ di Barcellona

    Nel XIX secolo, il teatro spagnolo fu particolarmente prospero, e dalle poche compagnie esistenti all’inizio dell’800, si passò a più di 50 gruppi teatrali attivi verso il 1875. Da un’istituzione antiquata qual’era, riuscì a mettersi al passo con le nuove tecniche sperimentate negli altri paesi europei.  Ciò nonostante non superò del tutto il proprio isolamento, partecipando ai maggiori movimenti internazionali solo da lontano. Al rinnovamento del teatro spagnolo contribuì sostanzialmente l’attività del Teatre Intim, fondato, secondo il modello dei teatri d’arte indipendenti europei, da Adriá Gual, a Barcellona, nel 1898. Per oltre trent’anni presentò un vastissimo repertorio di drammi che andavano dalle opere di Eschilo ai testi contemporanei.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Francia (‘400-'500)
    Confrères de la Passion; Enfants sans-souci
    ruoli legati a rappresentazioni sacre per i primi, farsesche per i secondi

    Nel XV secolo le rappresentazioni più popolari erano quelle religiose nelle quali eccellevano i Confrères de la Passion, attori dilettanti che esercitavano i più svariati mestieri. Attori professionisti o semiprofessionisti erano invece i cosiddetti Enfants sans-souci, che effettuavano anche tournée, producendosi in un repertorio analogo a quello delle Basoche (farse, moralités e sottises). Nel 1540 il parlamento proibì ai Confrères de la Passion la rappresentazione di mystères sacrés, consentendo loro di rappresentare solo misteri profani.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Francia (‘500-'600)
    La Comédie-Italienne, la compagnia di Molière e la Comédie-Française
    attori acrobati prelevati dalla commedia dell’arte

    Fra la seconda metà del XVI secolo e i primi decenni del XVII si assistette al fiorire di grandi attori (Turlupin, Gros-Guillaume, Gaultier-Garguille, Velleron Le Conte) e all’arrivo di famosi comici dell’arte italiani (Ganassa, Pier Maria Cecchino, più noto col nome di Frittellino, Francesco e Giovan Battista Andreini, ecc.), che non mancò di suscitare gelosia fra gli attori locali. Grande importanza storica ebbe, di lì a poco, la compagnia italiana diretta da Domenico Locatelli (Trivellino) che giunse nel 1653 a Parigi, per insediarsi (1660) al Palais-Royal dove, prendendo il nome di Comédie-Italienne, si alternò nelle recite con la compagnia di Molière. Nonostante la popolarità di cui godevano, gli attori vivevano però ai margini della società e la loro attività veniva ostacolata dalle autorità pubbliche che li tassavano pesantemente ed esercitavano una severissima censura. Un miglioramento della loro condizione, seppur non definitivo, si verificò nel 1641 allorché Luigi XIII, con un’ordinanza, riconobbe la liceità morale del mestiere dell’attore. I principi dell’ordinanza furono poi ribaditi nel 1680 dalla lettre de cachet di Luigi XIV con la quale veniva fondata la Comédie-Française.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Francia ('700)
    Lecouvreur, Clairon, Lekain, Dumesnil, Talma
    interpretazione semplice e naturale, senza declamazione

    Continuavano a gravare sulle compagnie assurde imposte sotto forma di droit des paures, denuncianti, in definitiva, la sostanziale condizione di ‘tollerati’ che gli attori avevano nella società. Si dovette attendere la Rivoluzione del 1789 per vedere riconosciuti con un decreto dell’assemblea nazionale i diritti politici e sociali degli attori e la dignità della professione. Nel XVIII secolo si assistette anche a una lenta e profonda trasformazione dello stile di recitazione. Allo stile declamatorio ed enfatico, già ripetutamente ma inutilmente deriso da Molière, si venne sostituendo un tipo di interpretazione più semplice e naturale. Innovatori più o meno audaci furono Adriana Lecouvreur, M.lle Clairon, Lekain, M.lle Dumesnil, François-Joseph Talma.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Francia ('800)
    Le compagnie stabili e quelle girovaghe. Il divismo e i monstres sacrés
    attori trascinanti; di rilevanza anche sul costume della nazione

    Nella prima metà del XIX secolo due provvedimenti migliorarono le condizioni degli attori: l’editto napoleonico del 1806, con il quale si istituivano compagnie permanenti sovvenzionate dallo Stato, e la legge del 1815 che, fissando alle compagnie girovaghe un itinerario per servire le piazze sprovviste di teatri stabili, garantiva loro continuità di lavoro. Durante il periodo romantico e nei decenni successivi nacquero i primi ‘divi’, i monstres sacrés, capaci di suscitare l’entusiasmo delle folle e di incidere sul costume del paese: tali furono Marie Dorval, Frédérick Lemaître, M.me Doche, Jeanne Bartet; a essi seguirono, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, altri grandi attori: Gabrielle Réjane, Lucien Guitry, Sarah Bernhardt, De Max, Mounet-Sully, la cui fama, o ‘mito’, come nel caso della Bernhardt, è tuttora viva.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Francia ('900)
    Antonin Artaud e il Théâtre Alfred Jarry
    visione rituale degli attori intellettuali

    Le Avanguardie novecentesche danno i natali a diversi artisti-intellettuali, i quali, unendosi in gruppi, costituiscono movimenti artistici di notevole spessore culturale. Antonin Artaud, già attore di Lugné-Poe, espulso dal movimento surrealista, perché non aderisce al marxismo del gruppo dirigente, e perché attore, nel 1927, fonda con Roger Vitrac il Théâtre Alfred Jarry, che vive due anni soltanto e rappresenta con mezzi esigui testi originali. In questo periodo Artaud scrive saggi illuminanti sulla Nouvelle Revue Française, esponendo una tesi rivoluzionaria, in cui sostiene, con forza, che la concezione religioso-cerimoniale-sacrificale del teatro originario deve tornare ad essere la condizione autentica del teatro moderno. Da quelle considerazioni nascono: Il teatro e la crudeltà (1933), Il teatro e la peste (1934), Il teatro e il suo doppio (1938). Nel periodo successivo alle due guerre, oltre al lavoro dei discepoli di Artaud, prende piede, soprattutto a Parigi, il ‘teatro dell’assurdo’ che, però, non si presenta come un movimento artistico dai contorni ben definiti.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Inghilterra ('400)
    Gli attori dilettanti e i professionisti (giullari)
    i mystery plays con la presenza di minstrels

    Durante il medioevo in Inghilterra la divisione fra attori dilettanti, interpreti del teatro religioso, e attori professionisti (giullari) non era stata così rigorosa come negli altri paesi europei. Nei registri delle rappresentazioni di mystery plays si legge di pagamenti fatti a minstrels (menestrello, giullare) ai quali, probabilmente, venivano affidate parti secondarie nelle sacre rappresentazioni. Questi contatti con attori professionisti spinsero assai presto gli attori dilettanti a costituirsi in compagnie girovaghe per mettere a frutto le capacità acquisite. Si ha notizia che già nel 1427 i Players of Abingdon recitarono alla presenza di Enrico VI (Enrico Lancaster – dinastia Plantageneti). Più tardi gli attori girovaghi, giudicati da molti ambienti alla stregua di pericolosi vagabondi e perseguitati come tali dall’autorità giudiziaria, cercarono di porsi sotto la protezione di qualche nobile che garantisse loro l’immunità.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Inghilterra ('500)
    Le compagnie: Lord Admiral’s Men, Lord Chamberlain’s Men con Shakespeare
    teatro elisabettiano: recitazione vociante e gesti solenni

    Nel 1571, il parlamento stabilì con una legge che per esercitare il mestiere gli attori dovessero essere ufficialmente riconosciuti servants di un pari, pena la berlina e la prigione. Fortunatamente per gli attori non era troppo difficile riuscire a ottenere la protezione dei nobili, i quali erano anzi lusingati di avere alle proprie dipendenze una compagnia drammatica. Così, le compagnie del periodo elisabettiano furono numerosissime. Fra le più celebri si ricordano: i Lord Admiral’s Men e i Lord Chamberlain’s Men, di cui fece parte anche Shakespeare, il quale, dal 1576 cominciò a recitare a Londra, in The Theatre, edificio a pianta poligonale che prefigurava il tipico teatro elisabettiano. La recitazione era necessariamente vociante, date le condizioni in cui si svolgeva la recita, davanti a un pubblico in piedi nella platea senza sedili, accalcato nei due o tre piani dei palchi, pronto a interloquire, a distrarsi. I gesti erano solenni e ritmati secondo particolari convenzioni. Dopo la morte di Elisabetta I (dinastia Tudor) e l’ascesa al trono di Giacomo I (dinastia Stuart), mentre le maggiori compagnie teatrali passavano sotto la protezione della casa reale (Shakespeare e i suoi compagni cambiarono il nome di Lord Chamberlain’s Men in quello di King’s Men), anche i nobili cominciarono a recitare a corte. Lo stesso re interpretava le parti principali dei masks che Ben Jonson e altri componevano.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Inghilterra ('600)
    La regina calca le scene, primo caso noto di donna sul palcoscenico
    la tragedia eroica

    Durante il regno di Carlo I (successore di Giacomo I – dinastia Stuart), i cortigiani allargarono il repertorio a lavori drammatici di maggiore impegno, e nel 1633 la regina Enrichetta Maria (moglie di Carlo I) recitò a corte in un dramma suscitando un certo scandalo fra i benpensanti (era la prima volta che una donna calcava le scene). Nel 1640 scoppiò la guerra civile, nel corso della quale il parlamento decretò la chiusura dei teatri (1642). Dopo la restaurazione monarchica (1660), alla ripresa della vita teatrale, primi interpreti e maestri delle nuove leve furono i vecchi attori, che avevano esordito come choirboys (coristi). Il repertorio era costituito, fino al 1680, dalla ‘tragedia eroica’ che, fortemente indebitata agli autori francesi e spagnoli, ed ambientata in luoghi esotici, privilegiava storie incentrate sulla tormentata scelta tra l’amore e l’onore.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Inghilterra ('700)
    Un grande attore Shakespeariano: David Garrick
    recitazione con colori differenti, ma essenziale

    Verso la metà del XVIII secolo, lo stile di recitazione della tragedia, divenuto da tempo monotono e retorico, fu riformato da David Garrick (vedi immagine a pagina 09), profondo conoscitore e grande interprete di Shakespeare. Negli stessi anni, in molte città si costituirono nuovi teatri, chiamati Theatre Royal, dove le compagnie girovaghe, fino allora costrette a recitare in luoghi di fortuna, ebbero sedi adeguate, cosa che produsse un netto miglioramento degli spettacoli. In teatri di provincia iniziarono la carriera attori quali Mrs. Siddons, John Philip Kemble, Edmund Kean.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Inghilterra ('800)
    Le stock-companies, e lo knight Henry Irving
    colori vocali diversi, ma recitazione manierista

    Nei primi anni dell’Ottocento, i Theatre Royal costituirono proprie compagnie stabili, le stock-companies, ma presto il diffondersi delle ferrovie consentì lo spostamento di interi complessi dalla capitale alle città di provincia; ciò portò alla decadenza delle stock-companies, di solito di un livello assai modesto. Cadevano frattanto tutte le prevenzioni che per secoli si erano avute nei confronti degli attori. Tale mutamento in seno alla società riceveva una sanzione ufficiale dalla regina Vittoria (dinatia Hannover), che elevò al rango di knight (cavaliere) l’attore Henry Irving (vedi immagine a pagina 07).

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Inghilterra ('900)
    L'Old Vic e le rappresentazioni dei grandi classici
    attori shakespeariani di livello

    La prima guerra mondiale portò notevoli cambiamenti. Si impose la figura dell’impresario come operatore commerciale, orientato alla produzione di spettacoli che, attraverso molte repliche, permettessero un ampio sfruttamento del capitale investito. L’avvenimento più significativo d quegli anni, fu comunque l’imporsi dell’Old Vic (Royal Victoria) che realizzò le più importanti produzioni dei classici inglesi. Durante questo periodo emersero diversi attori di grande rilievo. Tra tutti il più importante fu John Gielgud che, tra il 1937 e il 1938 prese in affitto il Queens Theatre, riunì una compagnia composta da Peggy Ashcroft, Michael Redgrave e Alec Guinness, e mise in scena un repertorio di classici. Mentre, tra i giovani attori cominciarono a imporsi Laurence Olivier, Ralph Richardson e Anthony Quayle.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Germania ('400-'500)
    I Fastnachtspiel e le compagnie girovaghe
    passaggio degli spettacoli carnascialeschi dai giullari agli attori dilettanti

    Nel corso del XV e XVI secolo la cura dei tradizionali spettacoli carnascialeschi, i Fastnachtspiel, fino allora monopolio dei giullari, fu assunta dagli attori dilettanti delle corporazioni artigiane. Eccellevano in queste rappresentazioni i Meistersinger di Norimberga e i Zilkerbrüder di Lubecca. Studenti e umanisti recitavano invece, in scuole e università, antiche opere teatrali e opere moderne d’imitazione classica. A fine Cinquecento le rappresentazioni studentesche ebbero eccezionale fioritura soprattutto nelle scuole dei gesuiti, che consideravano il teatro un’importante strumento educativo. Negli stessi anni, sull’esempio dei complessi nomadi stranieri apparsi in territorio tedesco, si formarono le prime compagnie girovaghe di professionisti.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Germania ('600)
    Il Prinzipal o Komödienmeister
    gli attori delle compagnie di giro e quelli di corte

    Le compagnie girovaghe di professionisti, già numerose nei primi decenni del Seicento, erano guidate da un capocomico, il Prinzipal o Komödienmeister, che era proprietario della dotazione, comprendevano anche donne ed erano formate per lo più da studenti ed ex ecclesiastici. Nonostante il buon livello raggiunto, gli attori girovaghi godevano di scarsa reputazione sociale e potevano recitare nelle diverse piazze solo con l’autorizzazione dei signori del luogo; questi ultimi, poi, si ripagavano del benigno assenso imponendo pesanti tasse agli attori. In condizioni migliori si trovavano le poche compagnie stabili presso qualche corte: qui gli attori conducevano una vita decorosa ed era loro possibile raggiungere un buon livello artistico.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Germania ('700)
    La riforma di Friederike Neuberin, e Goethe a Weimar
    rappresentazione ideale della natura; recitazione di vero e bello insieme

    Nel Settecento la riforma delle compagnie nomadi operata da Friederike Neuberin elevò il prestigio sociale degli attori e rese possibile, dopo la metà del secolo, la costituzione di teatri stabili in numerose città tedesche quali Lipsia, Monaco, Gotha, Mannheim, Lubecca, Berlino e Weimar; quest’ultima divenne, grazie all’opera di Goethe, il più importante centro teatrale e culturale della Germania. Per Goethe compito dell’attore era “non solo imitare la natura, ma anche rappresentarla idealmente, unendo così nella recitazione il vero con il bello”. Goethe fu uno dei primissimi direttori di spettacolo a far recitare gli attori non nei costumi fastosi degli ambienti cortigiani, bensì in quelli richiesti dal testo. Le sue rappresentazioni furono l’esempio di un complesso che operò realizzando sintesi storico-costumistico-ambientali di eccezionale rigore.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Germania ('800)
    La Genossenschaft Deutscher Bühnenangehöriger
    le organizzazioni sindali a tutela dell’attore

    Nell’Ottocento accanto ai teatri fondati nel secolo precedente se ne svilupparono altri privati a gestione azionaria, che contribuirono a migliorare le condizioni di lavoro degli attori. Nascevano intanto anche le prime organizzazioni sindacali, fra le quali la Genossenschaft Deutscher Bühnenangehöriger, fondata nel 1871 e tuttora operante.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Germania ('900)
    Piscator e Reinhardt; Brecht e la compagnia del Berliner Ensamble
    gli attori del ‘teatro epico’, e la ‘distanziazione’ dal personaggio

    Durante la Repubblica di Weimar (1919-33) sorge in Germania un teatro impegnato sui temi delle lotte sociali e politiche del paese. In questa realtà, Erwin Piscator, (regista) tornato dal fronte, fonda a Berlino il Ploretarisches Theater (Teatro Proletario – 1920), per allestire testi russi e tedeschi ispirati al marxismo. L’iniziativa, combattuta dalla censura, si conclude nella primavera del 1921. Più avanti, agli adattamenti voluti da Piscator e al teatro Espressionista di Max Reinhardt, collabora il giovane Bertolt Brecht, successivamente esiliato, a causa della presa del potere dei nazisti di Hitler. Nel 1948, il drammaturgo, torna a Berlino-Est per la direzione del Berliner Ensemble, in cui allestisce testi propri e di autori classici e moderni, nei modi del ‘teatro epico’, grazie alla disponibilità di molti attori del teatro stesso, che ricevono una retribuzione statale. La compagnia del Berliner Ensemble, raggiunge i palcoscenici internazionali, e, sia dal punto di vista gestionale che artistico, viene considerata la miglior compagnia professionale del periodo.

  • DAL MEDIOEVO ALL'ETÀ MODERNA – Russia (medioevo-'600)
    Gli skomorochi medievali, e le prime rappresentazioni sacre per lo zar
    gli attori ‘giullari’ e gli ecclesiastici

    Per secoli, dal medioevo fin oltre la metà del Seicento, in assenza di una letteratura drammatica vera e propria, gli unici attori, o meglio, gli unici uomini di spettacolo russi, furono gli skomorochi (giocolieri, burattinai, domatori, interpreti di scene farsesche, ecc.). Al 1672 si può far risalire la prima rappresentazione teatrale e il merito di essa va allo zar Aleksej Michajlovič. Lo zar, dopo aver invano interpellato attori stranieri perché recitassero a corte, incaricò il pastore tedesco Johann Gregori, residente a Mosca, di scrivere una commedia sul tema biblico di Ester e di curarne la rappresentazione; gli attori furono giovani stranieri ospiti nella capitale.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Russia (‘700)
    Fedör Grigor’evič Volkov, e le compagnie di filodrammatici
    gli attori moderni e i narodnye teatry

    Dal 1702 al 1740 circa, recitarono a Mosca numerose compagnie straniere (tedesche in maggioranza, ma anche una compagnia italiana e una francese); e negli stessi anni compagnie russe di filodrammatici, di solito impiegati e studenti, presero a recitare, soprattutto in periodo natalizio, commedie e drammi tratti da romanzi popolari. Una di queste compagnie, diretta da Fedör Grigor’evič Volkov, raggiunse un buon livello d’arte e fu chiamata a recitare a corte; dalle sue file uscirono i primi moderni attori professionisti russi, tra cui, Ivan Dmitrevskij. Nel 1765 si aprirono a Mosca e a Pietroburgo teatri popolari, i narodnye teatry, tenuti sotto severo controllo dalla polizia. Pochi anni dopo, il timore di disordini, consigliò il governo di interrompere simili imprese.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Russia (‘800)
    I teatri imperiali, e le compagnie di giro
    gli attori professionisti e i dilettanti dei teatri-club
    Verso la seconda metà dell’Ottocento esistevano, all’incirca, tre grandi categorie: gli attori che recitavano nei teatri imperiali, ben pagati e abbastanza inseriti nel contesto sociale; gli attori delle compagnie girovaghe, sfruttati da impresari ignari d’arte e guardati con sospetto dalle autorità; e, infine, gli attori semiprofessionisti o dilettanti che recitavano negli innumerevoli teatrini-club della capitale in attesa di raggiungere i palcoscenici dei teatri maggiori.

  • DALL'ETÀ MODERNA AL CONTEMPORANEO – Russia (‘900)
    Stanislavskij e il suo metodo di formazione dell’attore
    il lavoro dell’attore su: personaggio, affettività, interpretazione
    Col Novecento si inaugura il teatro di regia, di cui, Konstantin Stanislavskij è uno dei massimi esponenti, sia per i magistrali allestimenti d’innumerevoli opere classiche, sia per le regie di testi dei nuovi autori. Co-fondatore con Dacenko del Teatro d’Arte di Mosca, operante in varie città, dal ’22 al ’24 compie, con la compagnia, una trionfale tournée in USA. Dopo la Rivoluzione, Stanislavskij volge il suo impegno soprattutto nella direzione dei teatri-studio e nella formazione di giovani attori, impegno teorizzato in opere illuminanti, quali: La mia vita nell’arte (1924), Il lavoro dell’attore su se stesso (1937). Il suo ‘metodo di formazione dell’attore’ si sviluppa in quattro fasi: individuazione delle operazioni interiori del personaggio; ricerca delle affinità/incompatibilità fra attore e personaggio; ricostruzione della vita affettiva-intellettuale-fisica del personaggio; fantasia dell’attore per definire la linea interpretativa, colmando lacune esistenti fra se stesso e il personaggio.

 

La presente catalogazione riguardante il mestiere d’attore, è tratta da alcuni dei testi riportati in bibliografia.

 


BIBLIOGRAFIA
Sull'Attore
in ordine alfabetico

AAVV
VITTORIO GASSMAN: L’ULTIMO MATTATORE
a cura di Fabrizio Deriu
1999, Marsilio, Venezia

AAVV
ENCICLOPEDIA DELLO SPETTACOLO
cinema, teatro, balletto, tv
1983, Garzanti, Milano

AAVV
ENCICLOPEDIA DELLO SPETTACOLO
1954, Le Maschere, Roma

AAVV
L’ARTE DELL’ATTORE
a cura di Luigi Chiarini e Umberto Barbaro
1950, Bianco e Nero, Roma
- Appendice, Chiarini: L’attore teatrale e l’attore cinematografico
- Appendice, Barbaro: L’attore creatore

Aristotele
POETICA
2011, BUR Classici greci e latini, Milano
traduzione confrontata con:
Aristotele
POETICA
1984, Laterza, Bari

Antonin Artaud
IL TEATRO E IL SUO DOPPIO con altri scritti teatrali
a cura di Gian Renzo Morteo e Guido Neri
prefazione di Jacques Derrida
2000, Einaudi, Torino

Matilde Battistini
SIMBOLI E ALLEGORIE
tratto da: I DIZIONARI DELL’ARTE
a cura di Stefano Zuffi
2002, Electa, Milano

Sebastian Brant
LA NAVE DEI FOLLI
con incisioni di Albrecht Dürer
1984, Spirali Edizioni, Milano
- Trionfo dei vecchi Matti
- Trionfo prender spunto dai Matti
- Trionfo della Danza

John Russell Brown
STORIA DEL TEATRO
presentazione, di Nicola Savarese
introduzione, di John Russell Brown
1998, Il Mulino, Bologna
- Parte I – I primi teatri
Il teatro greco, di Oliver Taplin
Il teatro nell’Europa romana e cristiana, di David Wiles
- Parte II – Il teatro in Europa dal Rinascimento al 1700
Il teatro del Rinascimento in Italia, di Louise George Clubb
Il teatro del Rinascimento in Spagna, di Victor Dixon
Il teatro del Rinascimento e della Restaurazione in Inghilterra, di Peter Thomson
Il teatro del Rinascimento e del Neoclassicismo in Francia, di William D. Howarth
- Parte III – I teatri Europei e Occidentali dal 1700 al 1970
Il teatro del XVIII secolo, di Peter Holland e Michael Patterson
Il teatro del XIX secolo, di Michael R. Booth
Il teatro moderno (1890-1920), di Martin Esslin
Il teatro dopo le due guerre mondiali, di Christopher Innes
- Parte IV – I teatri del mondo
Il teatro dopo il 1970, di John Russell Brown

Bertolt Brecht
SCRITTI TEATRALI
1975, Einaudi, Torino
- Volume 1
Teoria e tecnica dello spettacolo – 1918/42
In particolare: Note provvisorie per gente di mestiere
- Volume 2
L’acquisto dell’ottone
Breviario di estetica teatrale e altre riflessioni – 1937/56
In particolare: Stanislavskij e Brecht
Che cosa si può imparare, tra l’altro, dal teatro di Stanislavskij:
Il senso di responsabilità di fronte alla società
Impegno di verità
Accordo fra naturalezza e stile
Importanza dell’uomo
- Volume 3
Note ai drammi e alle regie
In particolare: Il punto di vista estetico (da una premessa a ‘Un uomo è un uomo’)

Oscar G. Brockett
STORIA DEL TEATRO
1988, Marsilio, Venezia
- Il teatro Greco e Romano
- Il teatro in Oriente e in Occidente nel Medioevo
- Il teatro Italiano dall’Umanesimo al Seicento
- Il teatro Inglese dal Medioevo al 1642
- Il teatro Spagnolo dal medioevo al seicento
- Il teatro Francese nel Cinquecento e nel Seicento
- Il teatro Inglese dal 1642 alla fine del Settecento
- Il teatro del Settecento in Italia e in Francia
- Il teatro del Settecento in: Germania, Russia e nell’Europa settentrionale
- Il teatro dell’Ottocento
- La nascita del teatro contemporaneo: il teatro tra le due guerre
- Il teatro in Europa e negli Stati Uniti dal 1945 al 1968
- Il teatro dopo il 1968

Claudia Contin
VIAGGIO DI UN ATTORE NELLA COMMEDIA DELL’ARTE
estratto da: PROVE DI DRAMMATURGIA
rivista di inchieste teatrali – anno I, numero 1/2, settembre 1995
CIMES – Centro Interdipartimentale di Musica e Spettacolo
Università degli Studi di Bologna
1995, Edizioni Carattere, Bologna
si vedano nello specifico gli interventi su:
- Rapporti con la storia
- L’arlecchino di Ferruccio Soleri
- L’arlecchino dell’allievo diretto: Enrico Bonavera
- Il brighella di Renzo Fabris
- Il pantalone di Tommaso Todesca
- La maschera e il lavoro sui respiri
- Un teatro di gesti ‘all’italiana’

Federico Doglio
STORIA DEL TEATRO
1990, Garzanti, Milano
- VOLUME I – Greci e Romani, di Umberto Albini e Gianna Petrone
La scena, gli attori, il pubblico, le occasioni
Le macchine teatrali, le tecniche di recitazione
Il rapporto con i modelli, i generi letterari
Gli autori e i testi: da Eschilo a Menandro, da Livio Andronico a Seneca
- VOLUME II – Dall’Impero Romano all’Umanesimo, di Federico Doglio
L’eredità del teatro antico
Lo spettacolo medievale
Il teatro umanistico
- VOLUME III – Il Cinquecento e il Seicento, di Federico Doglio
Il teatro italiano
Gli elisabettiani
Il ‘Siglo de oro’
Corneille, Molière, Racine
I tedeschi
- Volume IV – Dal Barocco al Simbolismo, di Federico Doglio
L’illuminismo
Il romanticismo
Il realismo
- Volume V – Il novecento in Europa e il teatro americano, di F. Doglio
Da G.B. Shaw a Grotowski
USA: dalle rappresentazioni del periodo coloniale a Shepard e Mamet

Catherine Douël Dell’Angola
STREHLER E BRECHT
L’anima buona di Sezuan – 1981: Studio di regia
1994, Bulzoni Editore, Roma

Vittorio Gassman
INTERVISTA SUL TEATRO
a cura di Luciano Lucignani
2002, Sellerio, Palermo

Mel Gordon
IL SISTEMA DI STANISLAVSKIJ
dagli esperimenti del Teatro d’Arte alle tecniche dell’Actors Studio
1992, Marsilio, Venezia

Carlo Gozzi
FIABE TEATRALI
testo, traduzione e commento, a cura di Paolo Bosisio
1984, Bulzoni Editore, Roma

Pierre Grimal
ENCICLOPEDIA DEI MITI
edizione italiana a cura di Carlo Cordié
con prefazione di Charles Picard
1990, Garzanti, Brescia

Gubrynowicza Lwow
CONVERSAZIONI DI TEATRO: MAX REINHARDT
in: LA LETTURA
rivista mensile del Corriere della Sera, anno XXXII – nr. 10
1° ottobre 1932, Corriere della Sera, Milano

Arnaldo Momo
BRECHT, ARTAUD E LE AVANGUARDIE TEATRALI
teatro divertimento, teatro gioco
1979, Marsilio, Venezia

Orazio Flacco
SATIRE, EPISTOLE, ARTE POETICA
edizione critica e traduzione a cura di Domenico Bo
1956, Istituto Editoriale Italiano, Milano
traduzione confrontata con:
Orazio Flacco
LE EPISTOLE E L’ARTE POETICA
spiegate e recate in rime italiane da Camillo Toriglioni
1838, Co’ Tipi di Giuseppe Antonelli, Venezia
- Libro UNO - AI PISANI - Parte I: talento, padri, vati
- Libro UNO - AI PISANI - Parte II: campagna, faconda
- Libro UNO - AI PISANI - Parte III: e fiacca, li cela, e i dolci

Doretta Panizzut
COMPAGNIE DELLA CALZA
1994, Centro Internazionale della Grafica di Venezia

Konstantin Stanislavskij
IL LAVORO DELL’ATTORE
a cura di Gerardo Guerrieri
1968, Laterza, Bari
- Volume 1: Il metodo per attuare i sentimenti
- Volume 2: Il metodo per creare i personaggi

Ludovico Zorzi
L’ATTORE, LA COMMEDIA, IL DRAMMATURGO
1990, Einaudi, Torino
I - Il teatro dell’attore
II - Verso la commedia
III - Introno alla Commedia dell’Arte
III - La maschera di Arlecchino: sui caratteri generali del fenomeno
IV - Verso il drammaturgo: Goldoni: persistenza dei ‘modi dell’Arte’ nel testo goldoniano

 

La bibliografia sopra riportata, da considerarsi essenziale, è soltanto un piccolo contributo di riferimento, rispetto alla vastità di testi e scritture sul teatro, la sua storia, il mestiere d’attore, e le conseguenti e inevitabili evoluzioni stilistiche.

 


BIBLIOGRAFIA
Sulla Libertà
in ordine alfabetico

AAVV
LO STATUTO ALBERTINO
REGNO DI SARDEGNA E REGNO D’ITALIA
4 marzo 1848, sul sito internet
http://www.quirinale.it/qrnw/statico/costituzione/statutoalbertino.html

AAVV
MAGNA CHARTA LIBERTATUM
a cura di Michele Ducas Puglia
1215, sul sito internet,
http://www.rivstoricavirt.com/rivstoricavirt_sito/CorpoMC1215.html

Aristotele
DE ANIMALIBUS
Parti degli animali - Riproduzione degli animali
traduzioni di Mario Vegetti e Diego Lanza
1984, Laterza, Roma
- Capitolo XVI: ‘Parti degli animali’

Aristotele
DELLA GENERAZIONE E DELLA CORRUZIONE, DELL’ANIMA
Piccoli trattati di storia naturale
traduzione di Antonio Russo e Renato Laurenti
1983, Edizioni Laterza, Roma-Bari

Aristotele
DELLA FILOSOFIA
introduzione, testo, traduzione e commento esegetico di Mario Untersteiner
1963, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma
- Libro II – capitolo ultimo

Aristotele
ETICA NICOMACHEA
1999, Laterza, Roma-Bari
In particolare:
- Libro I – capitolo I
- Libro III
- Libro VI – capitolo ultimo
- Libro VIII – capitolo I

Aristotele
POLITICA E COSTITUZIONE DI ATENE
a cura di Carlo Augusto Viano
1992, UTET, Torino
In particolare, nella ‘Politica’:
- Libro I – capitolo XIII
- Libro II – capitolo VIII
- Libro III – capitolo V, VI, IX
- Libro V – capitolo II, V, VI
- Libro VII – capitolo VI, XIII
- Libro VIII – capitolo I

Aristotele
RHETORICA
traduzioni di Armando Plebe e Manara Valgimigli
1984, Laterza, Roma
- Libro II – capitolo XXIV

Salvatore Battaglia
GRANDE DIZIONARIO DELLA LINGUA ITALIANA
1996, UTET, Torino
1. Sentimento.
2. Senso, sensibilità di animali.
3. Pulsione, desiderio sessuale, concupiscenza; piacere fisico, carnale.
5. Consapevolezza della propria esistenza fisica; l’essere in sé, presente a se stesso, consapevole delle proprie sensazioni e in grado di controllare i propri atti e di reagire coerentemente alle situazioni esterne.
6. Attitudine a partecipare emotivamente alla situazione in cui ci si trova, fino a formarne un atteggiamento psichico costante; interiorizzazione di uno stato; consapevolezza, talora compiaciuta, di una propria caratteristica spirituale, di una disposizione d’animo, di un’emozione, fino a lasciarsene pervadere e dominare.
7. Consapevolezza di ciò che attiene a sé, al proprio stato di individuo e, in generale, alla condizione umana; capacità, propria dell’età adulta e della condizione psichica di maturità e di equilibrio, di valutare opportunamente la propria condizione e di badare a sé; consapevolezza delle proprie qualità e risorse e dei propri limiti.
8. Discrezione che guida nell’agire; capacità di comprendere le situazioni e di agire opportunamente in relazione con esse; discernimento, ponderatezza; senno; buon sentimento, buonsenso.
9. Capacità di conoscere, di comprendere; intelligenza, sagacia, acume.
10. Notizia, cognizione di un fatto.
11. Comprensione di un testo; interpretazione, esegesi; esposizione di un argomento.
12. Conoscenza specifica di un determinato campo di attività, teorica o pratica; grado, profondità di tale conoscenza; padronanza tecnica di un’arte o di un mestiere, perizia, competenza.
13. Opinione o parere su una questione sottoposta a giudizio, o anche intorno al comportamento di una persona o a una situazione di fatto; modo di pensare o di giudicare su uno specifico argomento; valutazione sul merito di qualcosa e, in particolare, giudizio su un’opera letteraria; parere tecnico, ipotesi scientifica.
14. Opinione di un autore, quale si ricava dalle opere.
15. Scelta di comportamento, presa di posizione; proposito; intenzione.
16. Tipo di percezione, in cui concorrono l’apprezzamento intellettuale e quello emotivo relativo a particolari aspetti del mondo esterno; l’avere presente allo spirito un valore morale o estetico con intensità tale da tradursi in coerenti atteggiamenti e comportamenti, e nel discriminare le varie esperienze in ragione del grado di adeguatezza a tale termine di paragone.
17. Consapevolezza intuitiva dell’esistenza di Dio; presenza costante di Dio nello spirito umano (e la conseguenza che ne deriva nelle opere e nei comportamenti); conoscenza di Dio, attraverso l’ascesi o la concentrazione interiore.
18. Atteggiamento emotivo consapevole e durevole, che deriva dall’elaborazione di un’impressione o di un’emozione, costituendo un fatto psichico non razionale né volitivo; riflesso psichico della condizione favorevole o sfavorevole in cui la persona si trova o, anche, partecipazione e coinvolgimento emotivo nelle vicende altrui.
19. Espressione di uno stato emotivo (e l’enfasi o il trasporto con cui viene comunicata).
20. Stato emotivo come spunto e oggetto di un’opera d’arte (e la rappresentazione artistica, in particolare letteraria, di esso).
21. Tonalità emotiva che caratterizza un’opera d’arte; effusione affettiva che impronta la stessa.
22. Affetto o amore per una persona, trasporto amoroso (e l’espressione di esso); dichiarazione amorosa.
23. Risentimento, contrarietà, disappunto.
24. Rammarico, dispiacere, dolore.
25. La sfera sentimentale ed emotiva dell’uomo (e la ricchezza, la profondità, l’intensità che offre, nelle varie gradazioni individuali); per estensione: passionalità.
26. Inclinazione morale, temperamento, indole, carattere; mentalità.
27. Modo di pensare collettivo; patrimonio di disposizioni e di idee di una collettività.
28. Significato di un’espressione; senso compiuto di una proposizione, di un discorso (e anche il contenuto profondo, il succo); messaggio contenuto in un’opera d’arte; tema, argomento.
29. Accezione di un termine; valore ed estensione semantica di una parola.
30. Spirito della legge; intenzione del legislatore o dell’estensore di una norma o di un parere giuridico.
31. Dottrina, insegnamento che si ricava da un’opera.
32. Locuzione; ‘avere sentimento a qualcosa’: appassionarvisi.

Antonio Capizzi
LA DIFESA DEL LIBERO ARBITRIO: DA ERASMO A KANT
1968, La Nuova Italia, Firenze
- Introduzione: Limiti della nostra ricerca
- Parte Prima: Contro le difficoltà teologiche
- Parte Prima: Le obiezioni da superare

Vincenzo Cartari
LE IMAGINI DE I DEI DE GLI ANTICHI
Storie di Dei e di Eroi che hanno ispirato generazioni di artisti.
La prima edizione moderna di un classico dell’iconografia
a cura di Ginetta Auzzas, Federica Martignago, Manlio Pastore Stocchi, Paola Rigo
1996, Neri Pozza Editore, Vicenza

Jean Chevalier, Alain Gheerbrant
DIZIONARIO SEI SIMBOLI
MITI, SOGNI, COSTUMI, GESTI, FORME, FIGURE, COLORI, NUMERI
1986, Bur-Rizzoli, Milano
1. Simbolo 5 – l’uomo individuale in rapporto all’uomo universale
11. Simbolo 5 – Le opere e i giorni di Esiodo

Cicerone
DEI DOVERI; DELLE VIRTÙ
titolo originale: DE OFFICIIS; DE VIRTUTIBUS
a cura di Quintino Cataudella
1966, Mondadori, Milano
- In particolare, nel ‘De Officiis’: Libro I – capitolo V

Marcello Craveri
L’ERESIA
dagli gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del Cristianesimo
1996, Mondadori, Milano

Giovan Battista Della Porta
DELLA FISIONOMIA DELL’UOMO
a cura di Mario Cicognani
nb con illustrazioni dell’edizione del 1610
1988, Guanda Edizioni, Parma

Erasmo da Rotterdam
SUL LIBERO ARBITRIO
1989, Edizioni Studio Tesi, Pordenone

Gorgia da Lentini
ENCOMIO DI ELENA
1982, L’Erma di Bretschneider, Roma

Ugo Grozio
DELLA VERA RELIGIONE CRISTIANA
a cura di Fiorella Pintacuda De Michelis
1973, Laterza, Roma-Bari
- Libro I – Dio esiste, II
- Libro I – Dio è causa di tutte le cose, VII
- Libro I – Contro l’obiezione relativa alla causa del male, VIII
- Libro I – Contro la teoria dei due princìpi, IX
- Libro I – E che vi sia una tale licenza di peccare, XIX
- Libro IV – Contro il culto tributato dal paganesimo ai defunti, IV
- Libro IV – Contro il culto reso agli astri e agli elementi, V
- Libro IV – Contro il culto reso agli esseri animati privi di parola, VI
- Libro IV – Contro il culto reso a cose che non sono sostanze, VII

Thomas Hobbes
LEVIATANO
O LA MATERIA
LA FORMA E IL POTERE DI UNO STATO ECCLESIASTICO E CIVILE
a cura di Arrigo Pacchi
con la collaborazione di Agostino Lupoli
1997, Laterza, Roma-Bari

Thomas Hobbes
ELEMENTI DI LEGGE NATURALE E POLITICA
presentazione, traduzione e note di Arrigo Pacchi
1968, La Nuova Italia, Firenze

Immanuel Kant
CRITICA DELLA RAGION PRATICA
1982, Rusconi, Milano
- Capitolo II - del concetto di un oggetto della ragion pura pratica
Tavola delle categorie della libertà in relazione ai concetti di bene e di male
1. della quantità
2. della qualità
3. della relazione
4. modalità

Johann Caspar Lavater
IL LAVATER PORTATILE
o sia: COMPENDIO DELL’ARTE DI CONOSCERE GLI UOMINI DAI TRATTI DEL VOLTO
traduzione dal francese con 33 tavole colorate
tomo I
Milano: dai torchi di Gio. Pirotta, a spese dei fratelli Vallardi, mercanti di stampe in S. Margherita, no. 1101
1811, Giovanni Pirotta, Pietro e Giuseppe Vallardi editori, Milano

Johann Caspar Lavater
IL LAVATER DELLE DONNE
o sia: L’ARTE DI CONOSCERE LE FEMMINE DALLA LORO FISIONOMIA
traduzione dal francese con 30 tavole colorate
tomo II
Milano: dai torchi di Gio. Pirotta, a spese dei fratelli Vallardi, mercanti di stampe in S. Margherita, no. 1101
1811, Giovanni Pirotta, Pietro e Giuseppe Vallardi editori, Milano

Martin Lutero
OPERE SCELTE – IL SERVO ARBITRIO
risposta a Erasmo
1993, Claudiana Editrice, Torino
– Analisi della prefazione di Erasmo:
Libertà è necessità dell’agire umano
Un arbitrio che, senza la grazia, è privo di ogni potere non è libero
Conclusioni
– Analisi dell’introduzione di Erasmo:
L’autorità di ciò che è antico non può essere prova sicura del libero arbitrio
– Esame degli argomenti erasmiani a favore del libero arbitrio:
La definizione erasmiana di 'libero arbitrio'

Marsilio da Padova (ovvero Marsilio dei Manardini)
IL DIFENSORE DELLA PACE
1991, Marsilio, Venezia
PRIMO DISCORSO
- Capitolo IV, punti 1-3 – Sulla causa finale della città, sui suoi requisiti civili e sulla distinzione delle sue parti in generale
- Capitolo V, punti 3-7-10-11 – Sulla distinzione delle parti della città, e sulla necessità della loro esistenza separata per un fine che può esserle assegnato dall’invenzione umana
- Capitolo VII, punto 3 – Sugli altri generi di cause dell’esistenza separata delle parti della città, e la divisione di ogni genere in due modi pertinenti al nostro proposito
- Capitolo VIII, punti 2-3 – Generi di politie o regimi, temperati e viziati, e divisione delle loro specie
- Capitolo XI, punti 3-5-8 – Sulla necessità di fare le leggi, intese nel loro senso più proprio; e che nessun governante, quantunque virtuoso o giusto, può governare senza le leggi
- Capitolo XII, punto 6 – Sulla causa efficiente dimostrabile delle leggi umane, ed anche su quella causa che non può essere provata per via dimostrativa; il che vuol dire compiere un’indagine sul legislatore. Onde appare che chiunque è istituito per elezione deriva la sua autorità solo da questa elezione, indipendentemente da ogni altra conferma
- Capitolo XIV, punti 4-5-8-10 – Sulle qualità o disposizioni del perfetto governante, affinché si sappia qual è il genere di persona che deve essere assunto al governo. Donde risulta anche quale sia la materia o soggetto appropriato delle leggi umane
- Capitolo XV, punti 2-5-6-8-10 – Sulla causa efficiente del miglior metodo per stabilire il governo; donde risulta evidente anche la causa efficiente delle altre parti dello Stato
- Capitolo XVI, punti 1-2-4-5-7 – Se sia meglio per la politia nominare ciascun monarca individualmente per mezzo di una nuova elezione, o eleggere invece un solo monarca insieme con tutta la sua posterità, che viene detta di solito “successione ereditaria”
- Capitolo XIX, punto 13 – Sulla causa efficiente della tranquillità e della mancanza di tranquillità della città o Stato, e di quella causa singolare che turba gli Stati in un modo insolito; e sulla connessione tra il primo ed il secondo discorso

Karl Marx
IL CAPITALE – Libro III
introduzione di Maurice Dobb
traduzioni di Delio Cantimori, Maria Luisa Boggeri, Raniero Panzieri
1967, Editori Riuniti, Roma

Walter F. Otto
SPIRITO CLASSICO E MONDO CRISTIANO
traduzione di Cecilia Calabresi
1973, La Nuova Italia Editrice, Firenze
Introduzione
I. Grecia e Cristianesimo
II. La religione dell’amore e della negazione di se stessi
III. Dal Paganesimo al Cristianesimo
IV. Al di là della fede

Pelagio
EPISTOLA A DEMETRIADE
introduzione, traduzione e note a cura di Donato Ogliari
2010, Città Nuova Edizioni, Roma

Cesare Ripa
ICONOLOGIA
a cura di Sonia Maffei
2012, Einaudi, Torino
- Libertà 1
- Libertà 2
- Libertà 3
- Libero Arbitrio

Jean-Jeacques Rousseau
IL CONTRATTO SOCIALE
2003, Feltrinelli, Milano
- Libro I – Capitolo IV, La schiavitù
- Libro III – Capitolo IV, La democrazia
- Libro IV – Capitolo I, La volontà generale è indistruttibile
- Libro IV – Capitolo VIII, La religione civile

San Paolo
LETTERA AI ROMANI
a cura del sacerdote Alessandro Gottardi
1960, Studium Cattolico Veneziano, Venezia

Sant’Agostino
GRAZIA E LIBERTÁ
1987, Città Nuova Editrice, Roma

Sant’Agostino
NATURA E GRAZIA
introduzioni e note di Agostino Trapè
traduzioni di Italo Volpi
1981, Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova Editrice, Roma
- Gli atti di Pelagio
- La grazia di Cristo e il peccato originale
- L’anima e la sua origine

Jean-Paul Sartre
L’ESISTENZIALISMO È UN UMANISMO
a cura di Franco Fergnani
1986, Mursia Editore, Milano
- L’uomo e Dio presso i filosofi del secolo XVII
- La natura umana presso i filosofi del secolo XVIII
- L’esistenzialismo ateo
- Menzogna
- Dostoevskij e l’esistenzialismo
- L’uomo è libertà
- L’esistenzialismo si oppone al quietismo
- L’uomo si sceglie in relazione agli altri
- La malafede
- La libertà
- La libertà degli altri
- L’umanismo esistenzialismo
- Esistenzialismo e ateismo

Jean-Paul Sartre
L’ESSERE E IL NULLA
saggio di ontologia fenomenologica
1965, Il Saggiatore, Milano
- Parte IV – Avere, fare e essere – I. Essere e fare: la libertà
1. La condizione prima dell’azione umana è la libertà
2. Libertà e fattità: la situazione
3. Libertà e responsabilità

Baruch Spinoza
OPERE - ETICA
Quinta parte. Della potenza dell’intelletto, ossia dell’umana libertà
2007, Mondadori, Milano
- Prefazione
- Proposizione III – dimostrazione e corollario

 

La bibliografia sopra riportata, da considerarsi essenziale, è soltanto un piccolo contributo di riferimento, rispetto alla vastità di testi e scritture sul tema inerente alla libertà, e nello specifico, la libertà di culto, la sua storia, le teorie, e le conseguenti e inevitabili evoluzioni di pensiero.